La salita al Monte Popa era una delle tappe cruciali dell’interno viaggio. Non so perché ci tenessi tanto, in sede di programmazione; nondimeno mi sembrava un luogo magico e particolare, qualcosa da annoverare tra i ricordi più eccitanti, una sorta di trofeo vacanziero da mostrare e di cui vantarsi con gli amici. Del resto, quale migliore location per far sfoggio di spirito avventuroso: un monastero appollaiato in cima ad un vulcano spento, raggiungibile solo da una rapida scalinata lungo un percorso impervio e zigzagante che avvolge la montagna. Fantastico!
Avrei dovuto dar ascolto a Sonny, che in sede di programmazione del viaggio mi aveva sconsigliato di andare laggiù. Mi sono accorto a mie spese che aveva ragione.
777 scalini a piedi scalzi
Il monastero, di per sè, è suggestivo. Può vantare una storia piuttosto articolata e inverosimile, come tutte le leggende religiose, ma ciò che lo rende spettacolare è la ripida scalinata che conduce in cima, dove sorgono gli edifici sacri propriamente detti. Questo tragitto si snoda sul fianco della montagna e attraversa una trafila continua di bancarelle che vendono oggetti di culto e souvenir da pochi soldi, la maggior parte dei quali destinata ai pellegrini. Il percorso è interamente coperto da una sgangherata tettoia di legno e metallo che protegge i visitatori dal sole o – alternativamente – dalla pioggia.
Purtroppo anche sul Monte Popa esiste l’obbligo di entrare nell’area sacra a piedi scalzi. Niente di nuovo, tutto sommato, in Myanmar è la norma. Ma qui il concetto di area sacra viene esteso a tutta la superfice calpestabile del monte, dalla base alla cima. Quindi si tratta di togliersi le scarpe all’entrata del sito e di fare 777 scalini a piedi nudi percorrendo una scala spesso umida e sporca. Un incubo!
Lo stesso Sonny, appena arrivati, si era affrettato a dichiarare che il sito, malgrado la nomea, non era niente di speciale. Ci consigliava di guardarlo dal basso, fare le nostro brave foto, mangiucchiare qualcosa nel caratteristico mercatino posto ai piedi della montagna, e poi filare via, verso Bagan. Tuttavia, ad un certo punto ha fatto un errore madornale: ha rivelato che il Monto Popa è invaso dalle scimmie, macachi per lo più. A sentire scimmie, Paola s’è improvvisamente destata dal torpore e ha insistito nel voler tentare la scalata. Non potendomi opporre in alcun modo, visto che si trattava del logico proseguimento dell’escursione giornaliera, mi sono preparato all’ascesa.
Le scimmie dispettose del Monte Popa
Dopo le prime due rampe di scale – percorse in perfetta solitudine, alla faccia della religiosità degli autoctoni – ci siamo accorti che le scimmie non sono semplicemente una stravagante e occasionale presenza del sito. Tutt’altro. I macachi del Monte Popa sono i veri padroni del sito. Sono tantissimi e si dividono disciplinatamente le zone più frequentate dagli umani durante l’ascesa. Scorazzano pressoché indisturbati tra colonne e tettoie provando a sorprendere il turista distratto che mangia qualcosa o non tiene particolarmente ai propri occhiali. Il loro senso del posizionamento strategico ha del miracoloso. Si dispongono infatti nei luoghi in cui l’umano, per forza di cose, o rallenta, o si siede, o si ferma per acquistare qualcosa. Ed è lì che scatta l’attacco, spesso preceduto da una azione diversiva. Vietato quindi prendersi pause o mostrare indecisione o difficoltà di qualsiasi genere.
Ma non sono state le scimmie dispettose a fermarci dopo appena due rampe di scale. Ciò che ci ha inorridito profondamente è stato constatare che tutti gli scalini erano praticamente coperti dagli escrementi dei simpatici primati, oltre che da una coltre di spazzatura in disfacimento, peraltro di dubbia individuazione. Noi, a piedi nudi, sotto una pioggerellina leggera vanamente bloccata dalla tettoia, abbiamo intuito che andare oltre ci avrebbe esposto ad una esperienza quantomeno poco piacevole. Abbiamo quindi deciso di desistere. E di comune accordo. Abbiamo capito che ci bastava così: d’altronde le scimmie le avevamo viste e potevamo considerarci soddisfatti.