Nessuno come i cinesi è in grado di definire un luogo altrimenti anonimo con termini talmente leggiadri, fiabeschi, graziosi da trasformarlo radicalmente. Sono dei veri maestri nell’attribuire nomi di una poetica sconfinata ai soggetti più disparati, belli o brutti che siano, senza il minimo riguardo per la verosimiglianza, la decenza (o per il ridicolo…). Si tratta probabilmente di una primigenia forma di marketing applicata alle aspettative della gente.
E’ il caso dell’isola del Fiore di Giada, una minuscola zolla di terra che sorge in mezzo all’altisonante Mare del Nord, che altro non è che un laghetto al centro di Pechino. Il luogo in esame, raggiungibile percorrendo un elegante ponte in candido marmo bianco, ospita una costruzione che al primo sguardo si nota appena. E’ il Dagoba bianco, uno stupa alto più di 30 metri che svetta proprio in cima ad una collinetta boscosa al centro dell’isola. Nelle giornate di nebbia è possibile che non si veda neppure, tanto è soffocata dallo smog perenne che avvolge Pechino, ma nelle giornate di sole vale la pena raggiungerlo perché da lì si gode un panorama davvero notevole.
Raggiungere è un verbo che va coniugato con prudenza. Lo stupa, infatti, da lontano non sembra inaccessibile, anzi tutt’altro. Tuttavia, man mano che ci si avvicina, la prospettiva inizia a cambiare e ogni cosa, intorno, comincia a crescere in dimensione e volume. Il Dagoba, poco prima così vicino, quasi a portata di mano, adesso si è improvvisamente allontanato. A volte addirittura sparisce tra le chiome degli alberi che tappezzano la collinetta.
Infine, ecco che la realtà presenta il conto: una lunga, dritta, infinita scalinata in fondo alla quale è persino difficile intravedere la meta finale. Uno di quei posti che definiscono impietosamente le sorti della nostra vacanza. Perché qui si decide se siamo turisti veri o vacanzieri della domenica. Il quesito è il seguente: andare sù o lasciar perdere? Sfido chiunque a negare che qualche volta, di fronte a una salita particolarmente ripida, ad un ponte traballate, o una strada dissestata, il desiderio sia stato quello di mandare tutto all’inferno. Ma chi me lo fa fare? In definitiva, sono in vacanza!
Ecco, la scalinata che porta allo spiazzo in cui è stato eretto il famoso Dagoba Bianco di Pechino è uno di questi posti maledetti. Salire significa impiegare un bel po’ dello scarsissimo tempo per andare a visitare un monumento che non sembra – almeno sulla carta – meritare tale sacrificio. E poi gli scalini sono tanti, tantissimi, e in fin dei conti parliamoci chiaro: si tratta di un blocco di pietra dalla forma di un birillo, niente di così straordinario…
Ovviamente queste considerazioni nel nostro caso hanno lasciato il tempo che trovavano. Noi abbiamo deciso di affrontare la scalata e di raggiungere la vetta. Lo sforzo, devo ammettere con rammarico, non è stato completamente ricompensato. Una volta raggiunta la cima, con il fiato grosso e intirizziti, il panorama che si è aperto al nostro sguardo era interessante, ma non quanto ci aspettassimo. In pratica, era possibile ammirare i tetti delle costruzioni più alte della Città Proibita e qualche torre delle mura, ma niente di più. Gli alberi e la nebbietta mattutina ci impedivano di osservare cosa realmente ci stesse attorno.
Nemmero il Daboba bianco, a dire la verità, ci ha entusiasmati. Indubbiamente si tratta di una costruzione notevole, ancora di più quando ci stai sotto, ma in sostanza è un grosso blocco di pietra bianco con dei fori di areazione e un baldacchino sulla sommità. Ci sono stupa più belli e sicuramente più agghindati di questo in giro per il mondo.
La particolarità di questo Dagoba, ad ogni modo, è che si tratta di una costruzione fortemente voluta per sancire l’adesione di una dinastia di imperatori (i Qing) al buddismo, in particolare al buddismo tibetano. Costruito una prima volta nel 1651, poi distrutto da un terremmoto, ricostruito e buttato giù da un nuovo sisma nel XX secolo, la sua forma odierna (di altezza minore rispetto all’originale) si deve all’ultimo intervento di restauro del 1976. In pratica si tratta di un reliquiario buddista. Al suo interno sono custoditi, infatti, le scritture buddiste, i mantelli dei monaci e le loro ciotole per le elemosine e – ovviamente – le ossa dei monaci stessi che lo hanno occupato nel corso dei secoli.
La scalata al Dagoba bianco si può abbinare naturalmente alla visita del grande parco Beihai, al centro di Pechino. Come ho descritto sopra, si può anche lasciar perdere, ma questo dipende dalla particolare disposizione d’animo del momento. Ad ogni modo, l’immagine dello stupa in cima alla collinetta, osservata dall’inizio del ponte che conduce all’isola, è una delle scene più affascinanti di Pechino, specie quando il laghetto è ghiacciato. Forse è solo qui che il Dagoba bianco di Pechino assurge al rango di ricordo davvero indimenticabile…