Notte di pioggia a Kyaiktiyo

E’ una esperienza piuttosto diffusa ai Tropici quella di passare una notte in bianco a causa del maltempo. E’ una questione psicologica, ancestrale, assolutamente irrazionale, lo so. Ma la bufera che si scatena fuori è talmente violenta da rovinare il sonno anche dei più coraggiosi. La furia degli elementi, specie durante la stagione delle piogge, è qualcosa di estremamente impressionante ed è ancora in grado di terrorizzare l’uomo oggi come un milione di anni fa. La notte passata alla Kyaiktiyo Pagoda (la Roccia d’Oro) è la mia personale esperienza in merito. E rimane ancora oggi nell’hit-parade dei miei ricordi più terrorizzanti. Ecco come è andata.

Il nostro programma prevedeva di alloggiare proprio dentro il complesso templare, in un albergo piuttosto ben tenuto, di vecchia costruzione, il cui maggior vanto era una meravigliosa veduta del panorama circostante. Una vista che avremmo volentieri ammirato se non fosse stato per la nebbia e le nuvole basse che ci circondavano. A peggiorare la situazione, ha iniziato a piovere come solo ai tropici può piovere: acqua a catini, chiome degli alberi sconvolte dalla furia del temporale, lampi e tuoni praticamente senza soluzione di continuità.

Per qualche attimo è anche mancata la luce; quindi abbiamo deciso di andare a dormire, tanto la tv non funzionava e comunque non avrebbe trasmesso che un banale canale governativo. La notte è stata caratterizzata da un rumore assordante di fondo, quello delle grondaie colme d’acqua scrosciante, e dai sinistri bagliori che penetravano attraverso le persiane. Se non fossimo stati così provati dalla salita del giorno prima, probabilmente avremmo trascorso quella notte in bianco. Invece, dopo l’ennesimo sussulto in conseguenza dell’ennesimo tuono, sono caduto in un sonno profondo e denso che mi ha accompagnato, senza sogni né altre emozioni, fino al mattino seguente.

Risveglio umido

Il giorno dopo pioveva decisamente meno, ma il cielo incuteva ancora paura. Una massa scura di nuvole cariche di pioggia si stagliava dietro le finestre della famosa veranda da cui avremmo dovuto godere del panorama. Guardarle muoversi impazzite da una parte all’altra ci ha impressionato talmente da farci passare l’appetito. Inoltre, la colazione che ci hanno servito era di una povertà sconcertante, forse perché in linea con i precetti di sobrietà e astinenza del luogo… Sonny pertanto ci ha consigliato di aspettare prima di intraprendere la discesa verso il “campo base” da cui avremmo preso il camion e la via del ritorno. Un consiglio che abbiamo accettato volentieri.

Poi, all’improvviso, come succede spesso ai tropici, il cielo si è squarciato ed è spuntato il sole. In meno di 5 minuti si è asciugato tutto e il caldo umido ha invaso ogni cosa. Ne abbiamo approfittato subito: indossato lo zainetto, calzate le inutili scarpe da trekking, ci siamo riversati sulla tortuosa via che conduceva al punto di partenza. Ma questa volta in discesa. E la strada, che il giorno prima, in salita, ci era parsa terribile, adesso in discesa ci è sembrata praticamente impercorribile.

Ritorno alla base

Paola ha giudicato, a ragione, di non farcela. La strada in effetti era l’unico elemento non del tutto asciutto; si rischiava seriamente di scivolare e di arrivare alla meta ruzzolando da un tornante all’altro come una palla da tennis. Ha deciso quindi di “affittare” i portantini che avevamo notato il giorno prima. Per lei si sono immediatamente offerti 4 energici giovanotti con la loro portantina artigianale: una amaca tesa tra due pali di bambù paralleli. Dopo una contrattazione mai così rapida e senza condizioni, i quattro hanno issano mia moglie e subito, agilmente, di passo svelto, hanno iniziato a scendere spediti verso il basso.

Io invece, stoico e stolto allo stesso tempo, mi sono incaponito per affrontare la prova della discesa con le mie malferme gambette di turista poco allenato. Insieme a Sonny, che al contrario camminava leggero sulle sue logore infradito, ho percorso tutti i tornanti con cautela e la massima attenzione, contando ogni passo che mi avvicinava alla fine di quella sofferenza. In un paio di occasioni ho rischiato di scivolare, lo confesso, ma mi sono sempre salvato in estremis. Anche Paola, comunque, ha rischiato grosso. Mi ha raccontato infatti che uno dei portantini, ad un certo punto, ha messo il piede in fallo e la portantina si è pericolosamente inclinata. Ma è stato un attimo e gli altri tre, come le sospensioni intelligenti di alcune automobili, hanno riequilibrato immediatamente l’assetto generale del mezzo.

Infine, dopo una interminabile attesa del camion giusto, finalmente siamo riusciti a salire su uno fra i meno peggio a disposizione. Questa volta però siamo stati costretti a prendere posto dietro, nel vano unico dove l’unica comodità offerta erano delle assi parallele su cui ci siamo seduti, uno accanto all’altro, stretti e compressi come galline in un pollaio. E l’espressione generale di tutti i turisti era di tale sofferenza e rassegnazione che sarebbe risultata addirittura comica se non fosse stata probabilmente la stessa che avevamo anche io e mia moglie in quel preciso istante…

 

Lascia un commento