Da Kunming a Dali la distanza non è enorme. Con un autobus è sufficiente una mezza giornata di viaggio. Noi invece abbiamo scelto di prendere un treno notturno. Perché? In sostanza per rispondere a una esigenza vitale, data la brevità del nostro viaggio: non sprecare neppure un’ora del nostro preziosissimo tempo. Dormire in treno ci è parsa la scelta più razionale, anche perché ci avrebbe fatto risparmiare un pernottamento in albergo.
Che il percorso fosse breve ce ne siamo accorti proprio durante la notte in treno. Partiti alle 23:00, dopo circa 3 ore di viaggio ci siamo fermati in una sperduta stazione in mezzo al nulla. L’arresto è durato almeno 2 ore, durante le quali hanno spento tutto: radio, aria condizionata, motore. Finalmente, in piena notte, il treno è ripartito ma quasi subito siamo arrivati a Dali. Ed erano le 6:00. Facciamo quindi due conti: fino alle due di notte la prima tratta; dalle quattro alle sei la seconda tratta. In tutto quindi 5 ore di viaggio.
Scesi in fretta e furia dal treno, insieme ad una marea di turisti cinesi e (pochi) occidentali, ci troviamo tutti ammucchiati nella hall principale della stazione in attesa che termini il furioso temporale che si è abbattuto sulla città. Rispetto a Kunming, e più ancora Shanghai, il clima è completamente diverso: adesso tutti cercano di coprirsi il più possibile perché fa decisamente freddo! Davanti a noi, poi, un panorama inconsueto: tanto è moderna e pulita la stazione che ci ospita, quanto sembra sporca, caotica, sgarrupata la città che abbiamo di fronte. In un momento di tregua dalla bufera, ci risolviamo ad uscire, ma in mezzo a quella calca di auto e mezzi pubblici malandati non riusciamo neppure a capire dove dirigerci. Una cosa è certa: il centro di Dali, ove ci attende la nostra guethouse, sembra decisamente lontano.
All’ennesimo scroscio di pioggia abbandoniamo qualsiasi velleità di fare da soli e ci affidiamo a un taxi. L’autista – che ovviamente non parla una parola d’inglese – non ha alcuna esitazione a spegnere il tassametro: ci comunica subito il prezzo e si predispone ad una contrattazione che ritiene probabilmente ostica. Non ottiene però alcuna resistenza da parte nostra: accettiamo senza discussioni il suo prezzo perché siamo stanchi e non vediamo l’ora di raggiungere un posto caldo e sopratutto asciutto.
Arrivati davanti alla nostra pensione, ci accorgiamo che è chiusa, apre ufficialmente alle otto. E fuori continua a piovere. Ci predisponiamo all’attesa, cercando di ripararci al riparo di un ombrellone piuttosto malconcio, ma fortunatamente non dobbiamo aspettare troppo: ad un certo punto la porta a scorrimento si spalanca e un braccio sottile emerge dall’interno mentre getta fuori dell’acqua da un secchio. Con un balzo degno di un felino, mi avvento dentro prima che il varco si richiuda. Il tipo mi guarda trasecolato ma non obietta nulla quando invito Paola ad entrare e portare dentro le valigie. Il capo non c’è, arriverà più tardi; solo allora potremo prendere ufficialmente possesso della nostra camera. Nel frattempo ne approfittiamo per andare a fare colazione.
Chiedo al ragazzo dove è possibile fare una colazione decente. Ovviamente io intendo una “colazione all’europea” o al massimo “all’americana”, e lui fa cenno convinto di aver capito. Ma l’indirizzo che ci dà risponde a quello di una bettola, poco distante dalla pensione, in cui si fa la colazione “alla cinese”, o meglio, “alla cinese dello Yunnan”. Si mangia infatti una palla bianca di farina di riso, appena estratta da un bollitore a vapore, accompagnata da spiedini di carni varie molto stuzzicanti, ma non in quel momento della giornata. Non è una colazione che fa per noi.
Iniziamo anzitempo il tour della città con lo scopo di individuare un luogo che almeno alla lontana possa offrirci qualcosa da mettere sotto i denti. Il primo passaggio della città, effettuato lungo una delle vie principali, non ci soddisfa per niente: le uniche attività gastronomiche aperte sono i negozietti mono alimento che sfornano, di prima mattina, roba fritta e arrostita da spaccare il fegato. Il mercato mattutino avrebbe qualche bancarella con cibo decente, ma il lezzo generale e lo sporco che domina ogni angolo non sono fattori incoraggianti. Solo un luogo ci attira e incuriosisce. E’ gestito da un signore, dall’evidente aspetto tibetano, che impasta focacce ripiene e le cucina in un forno ricavato da una specie di enorme giara.
C’è la fila per gustare queste prelibatezze: turisti cinesi, per di più, ma anche qualche altro occidentale, incuriosito dal procedimento. Che assomiglia in modo impressionante al metodo tandoori utilizzato in India. Il valente cuoco prepara dei panetti di farina di grano, li appiattisce con maestria riducendoli a delle pizzette; poi introduce all’interno dell’impasto qualche ingrediente che estrae da bidoncini posti accanto al piano. I condimenti vengono infine amalgamati dentro la pizzetta finché spariscono alla vista. Fatto ciò, con un gesto perentorio e, direi, audace, inserisce la focaccia all’interno del vaso rovente, in fondo al quale ci sono delle braci ardenti. La focaccia, miracolosamente, rimane appiccicata alla parete e inizia a cuocere, gonfiandosi e colorandosi.
Morale della favola: mai mangiato una focaccia più gustosa di quella! La combinazione di farina cotta e profumata (evidentemente tra le braci era stato aggiunto qualche ago di pino) con i condimenti interni, di cui sono riuscito a individuare solo il peperoncino e i funghi, era talmente armoniosa, misurata, appagante, che ne avrei volentieri presa un’altra. Mi sono trattenuto considerando quanti chilometri distava la mia pensione; e a pensarci bene, non avevo ancora neppure la camera d’albergo, con bagno annesso, a cui ricorrere in caso di complicazioni intestinali…