Una delle caratteristiche più curiose del lago Inle è che una buona parte della sua popolazione vive in grandi case su palafitte, alcune collocate presso le rive, altre in mezzo al lago. Si tratta del popolo Intha, di oscure origini nordiche; molti secoli fa si stabilì in questa area e iniziò a colonizzare le rive del lago, coltivando gli orti galleggianti, pescando alghe e costruendo dimore molto originali.
Il tour del villaggio su palafitte, come è ovvio, si svolge in barca. Occorre quindi prepararsi a una traversata che, a seconda del clima, può essere splendida o – al contrario – piuttosto traumatizzante. Il tempo, su questo altipiano, è davvero mutevole: un momento c’è il sole e fa caldo, qualche minuto dopo basta una nuvoletta a sconvolgere tutto. E quando piove, una barca scoperta e veloce non è proprio il posto più adatto per restare asciutti… Il consiglio, come al solito, è di coprirsi a cipolla, portare una cerata leggera contro la pioggia e anche un ombrello, il cui inconsueto utilizzo collaterale descriverò in seguito.
Le case su palafitte del lago Inle si raggiungono comunque in pochi minuti (a seconda di dove si trova l’albergo di partenza, naturalmente). Sono abitazioni di legno di teak e bambù, alcune molto semplici, altre più articolate. Si poggiano tutte su una fitta rete di pali di bambù saldamente piantanti nel fondo del lago. Le più povere – e caratteristiche – sono interamente costruite in giunchi, paglia e altro materiale vegetale. Le pareti sono stuoie di fibre intrecciate, le finestre sono dei buchi la cui copertura è assicurata da rudimentali abbaini, anch’essi in stuoia, che vengono tenuti aperti con un bastoncino fissato all’interno dell’abitazione.
Altre abitrazioni, più distinte, presentano perfino dei balconi o delle verande, sulle quali si svolge gran parte della vita quotidiana dei loro abitanti. I trasporti, come è ovvio, avvengono esclusivamente tramite barche o piroghe. La maggior parte sono semplici legni dal fondo piatto che vengono governate a remi; altre, più convenzionali, sono più grandi, a coppie di posti, provviste di rombanti e puzzolenti motori diesel. In ogni caso, in certi momenti della giornata, è possibile assistere perfino a dei veri e propri ingorghi, con le barche e le canoe che si intrecciano, si accostano, si imbottigliano, proprio come accade sulle strade di casa nostra.
La giornata prevedeva una iniziale, doverosa e alquanto interessante visita ad un complesso commerciale posto a metà tra la terraferma e le acque del lago. Il centro, strutturato all’interno di edifici in legno collegati fra di loro da esili passarelle, proponeva un po’ il meglio della produzione artigianale locale. Ci ha particolarmente impressionato il processo di creazione delle fibre vegetali con le quali vengono tessuti maglioni, foulard, cappelli, sciarpe e persino portafogli e borsette. Queste fibre sono ricavate dal gambo del fiore di loto, una risorsa diffusa e praticamente inesauribile fornita dal lago. Un processo alquanto complesso, a considerare la difficoltà, tutta manuale, nel ridurre le fibre grezze in un filo finissimo e resistentissimo.
L’altro celebre prodotto del lago Inle è la sigaretta di tabacco grezzo. E’ un bene molto ricercato in Myanmar, a quanto pare, perché sulle sponde del lago viene coltivata una varietà di tabacco piuttosto pregiata. La manufattura di queste sigarette è esclusivo appannaggio delle donne che vivono nelle palafitte, secondo una organizzazione del lavoro che potremmo definire a carattere familiare. Sono loro che si prendono carico di andare a prendere la materia prima, sia in forma di foglie che triturata, trasportarla sulle loro strette canoe e lavorarla; il risultato è un sigaro verde dalla forma sottile e della lunghezza di una sigaretta nostrana.
I sigari sono prodotti da gruppi di tre-quattro donne, che – tra una chiacchiera e l’altra – si dedicano a questa occupazione con allegria e apparentemente senza alcuno sforzo. La rilassatezza con la quale si prestano ad una attività tutto sommato ripetitiva e – alla lunga – alienante, è perlomeno straordinaria. Come si vede dalla foto, ognuna di esse ha davanti un cesto di metallo che contiene il tabacco triturato, un barattolo di colla di pesce e una serie di bastoncini, di varie dimensioni, che servono ad arrotolare la foglia di tabacco intorno al suo contenuto.
Io ho provato questo sigaro. Niente di che, sembra una Galouises ma molto meno forte, e del resto il tabacco è del genere “biondo”, non “nero” come quello delle celebri sigarette francesi. Inutile dire che ho dovuto acquistarne almeno una trentina, altrimenti non mi avrebbero consentito di fare le foto e sopratutto di andarmene via a mani vuote.
Infine, spiego a che serve l’ombrello. Non a ripararsi dalla pioggia, come ho già accennato prima, perché su una barca a motore è difficile tenere aperto un ombrello. Al contrario, la sua utilità si può apprezzare quando si incrociano altre imbarcazioni. A volte le barche ci frecciano accanto veloci, incuranti sia dell’onda sia degli schizzi provocati. E da questi che è bene proteggersi, specie in certi momenti in cui il traffico di barche è piuttosto caotico. Uno spruzzo improvviso, inzuppandoti da capo a piedi, può rovinarti il resto della giornata, perchè fino a sera, quando tornerai in albergo, non troverai modo di asciugarti. Meglio prevenire, e aprire l’ombrello solo quando si incrociano altri mezzi galleggianti.