I villaggi con le case dai tetti di paglia di Takayama rappresentavano per noi il principale scopo di questa tappa del viaggio. Avevamo letto che si trattava di veri e propri luoghi incantati, vestigia di passato rurale e feudale rimaste intatte nei secoli e giunte fino a noi praticamente inalterate. La località più famosa della zona, caratteristica per questa tipologia di case, è Shirakawa-go, un paesino poco distante da Takayama in cui la gente abita ancora in queste abitazioni e conduce una vita non molto dissimile da quella di 100 anni fa.
Tuttavia, documentandoci adeguatamente, ci siamo resi conto che Shirakawa-go e l’altra località altrettanto celebre – Gokayama – in quel periodo erano invasi di turisti e di torpedoni, tanto che la stessa Lonely Planet dissuadeva dal visitarle, per non arrecare maggiore fastidio ai locali. Pare infatti che l’afflusso di turisti sia tale che la confusione regni sovrana dappertutto, e gli stessi autoctoni, infastiditi, evitino perfino di uscire di casa e svolgere le attività più normali.
Pertanto, arrivati a Takayama, ci siamo trovati improvvisamente spiazzati, perché in fin dei conti avevamo puntato proprio su queste due località per dare un senso al nostro viaggio in questa zona. Che fare? Prendiamo la guida della città fornita dall’efficiente ufficio del turismo locale e subito ci accorgiamo che poco distante, a nord, c’è un luogo in cui le autorità locali hanno ricostruito tutti gli edifici di un villaggio che un tempo sorgeva proprio a Takayama e che in seguito alla costruzione di una diga rischiava di venire sommerso.
In questo luogo, divenuto ben presto un parco a tema, sono state ricollocate, più o meno nello stesso modo di come si trovavano originariamente nel luogo di provenienza, una trentina di edifici, tra case private, mulini, cascine, magazzini, stalle, il tutto disposto molto graziosamente intorno a un laghetto artificiale. E’ quello che sulle guide viene indicato con “Hida Folk Village“. E cioè la perfetta ricostruzione, per di più con elementi originali, di un villaggio tradizionale delle Alpi giapponesi, esattamente come quelli ben più famosi di Shirakawa-go e Gokayama, ma senza le orde di turisti che li affollano. Per noi andava benissimo lo stesso.
Lo so, forse non è il massimo accontentarsi di una copia quando si ha a disposizione la possibilità di vedere l’originale. E’ vero, lo ammetto, ma l’Hida Folk Village è comunque un ottimo surrogato, rende perfettamente l’idea di come fosse strutturato, costruito, organizzato un villaggio tradizionale giapponese, con in più l’innegabile vantaggio di poter fare foto e riprese senza subire strattoni da parte di altri turisti e potendo contare su immagini, come quella di sopra, non deturpate dalla presenza umana. Per questo motivo raccomando questa escursione.
Perché di escursione si tratta. Dalla stazione di Takayama, se non si vuole prendere il bus, bisogna accollarsi un tragitto di circa 6 chilometri, inizialmente in salita, che percorre una trafficata statale stretta e ben poco agibile, soprattutto se rapportata agli standard giapponesi. Da un lato ci sono scuole e capannoni industriali, dall’altro campi che si perdono fin sulle colline fino a raggiungere il blocco compatto della foresta.
Di per sé la passeggiata è piacevole, a patto di non sbagliare strada, come è capitato a noi. Il villaggio sarebbe anche ben segnalato, sempre però di trovarsi dalla parte giusta della strada… e noi evidentemente non lo eravamo, perché abbiamo continuato a camminare per almeno 3 chilometri contando su punti di riferimento che sembravano corretti, e invece non lo erano affatto. Quando abbiamo finalmente capito che eravamo un po’ fuori strada – e questo è avvenuto inevitabilmente quando abbiamo incrociato un’arteria ben più importante che portava a Toraya – allora siamo stati costretti a ricorrere all’aiuto dei locali. Che non si sono assolutamente tirati indietro, malgrado fossero semplici contadini; con gesti e smorfie ci siamo intesi benissimo, e loro, con molti sorrisi e inchini esagerati ci hanno indicato la via corretta.
Eccoci dunque al villaggio tradizionale. Il biglietto d’ingresso era piuttosto salato, a dire il vero, però arrivati fin là, dopo 2 ore di camminata, in debito di ossigeno e sotto costante minaccia di venire sorpresi da un solenne acquazzone, abbiamo sborsato il dovuto senza fiatare. Appena entrati, ecco che ci abborda una tipa svelta e manesca che ci invita, quasi ci costringe, a fare una foto con la mascotte del luogo, quel pupazzetto rosso che esibiamo, un po’ imbarazzati, nella immagine qui accanto.
Quanto al parco, è meno pacchiano di quanto possa sembrare. Gli edifici antichi sono veramente straordinari, sia fuori che all’interno, dove tutto è stato conservato più o meno come era un tempo. I famosi tetti a spiovente sono realizzati con una copertura di giunchi fittamente affiancati l’uno all’altro, profonda almeno un metro, così densa da non far passare neppure una goccia di pioggia.
Il percorso consigliato dall’opuscolo-guida si snoda lungo eleganti sentieri immersi nel verde e permette di farsi un’idea di come si viveva fino a 100 anni fa in uno di questi villaggi rurali. Ci sono abitazioni, alcune modeste, altre appartenute a ricchi mercanti o contadini; e poi mulini ad acqua, stalle, magazzini per stipare le granaglie, perfino un piccolo appezzamento di riso, verdissimo, ritagliato accanto ad un tempio con tanto di campanone e tamburo.
La passeggiata, poi, sarebbe davvero splendida se non fosse per alcune zone, come i centri di ristoro, dove ronzano in quantità enormi calabroni, attirati dai residui delle bevande dolci che vengono lasciate nei bidoni di spazzatura. Uno di questi imenotteri, forse stordito dal caldo, mi si è infilato sotto il pantalone e ha cominciato ad agitarsi freneticamente finché non ho cercato di farlo uscire, e allora il maledetto m’ha punto, lasciandomi un livido duro e violaceo che mi è rimasto a lungo sulla coscia sinistra.