Il Giappone è terra di numerose sfide per noi poveri e disincantati turisti occidentali. Sfide intellettuali, soprattutto, perché ci sono cose che ben difficilmente possono venire comprese al primo sguardo, tanto sono distanti dal nostro modo di ragionare. Guardare un giardino zen di pietra, ad esempio, secondo me costituisce la sfida per eccellenza al nostro intelletto, ma è allo stesso tempo una prova a cui bisogna sottoporsi per capire a fondo il concetto di bellezza di questo popolo affascinante.
Il giardino di pietra (o secco), per chi non lo sapesse, è una delle espressioni della filosofia zen giapponese. Tutti gli elementi di queste composizioni a cielo aperto hanno un significato unico e speciale, ogni cosa è disposta esattamente nel posto in cui deve stare, non un centimetro più sù o più in là.
La caratteristica peculiare, come si vede in foto, è la presenza di pietre di varie dimensioni e forme, posizionate però come se fossero piante, alberi, arbusti. L’idea è quella di un giardino, non di questa terra, ma metaforico, dove ogni elemento sembra galleggiare in un mare piatto e accuratamente pettinato di ghiaia bianca. Si tratta in buona sostanza di un esercizio di raffinata simbologia, ma che allo stesso tempo rasenta l’astrattismo più assoluto. Un astrattismo che lascia sconcertati i turisti più critici e smaliziati. Come me.
Ecco la mia esperienza in proposito. Anche noi siamo andati a vedere questo famoso giardino di Ryoan-ji, a Kyoto, il più famoso di tutti, almeno a sentire la Lonely Planet. Ci siamo quindi incamminati in mezzo alla folla di turisti lungo il percorso – peraltro molto affascinante – che conduce al tempio il cui cortile interno ospita questa meraviglia.
Ebbene, che devo dire? Il primo impatto non è stato positivo, a dire il vero. In primo luogo perché, era davvero complicato riuscire a raggiungere una posizione dalla quale avere una visione generale di tutta l’area: la folla di turisti era così fitta che per almeno un quarto d’ora ho provato a fare capolino tra gambe, teste tentennanti e braccia protese in avanti (per i selfie), ricavandone immagini parziali, poco significative, che non soddisfacevano la mia pignoleria di fotografo.
Finalmente, appena un vociante gruppo di coreani si è tolto di mezzo, lo spazio si è magicamente aperto davanti ai miei occhi e il giardino di Ryoan-ji è apparso in tutta la sua maestosità. E che delusione è stata… Uno spazio clamorosamente vuoto, bianco, riempito di ghiaia finissima e bianca, pettinata a rastrello in forme a volte dritte, a volte concentriche, su cui si ergevano tre o quattro isole tondeggianti, caratterizzate da pietre grandi e irregolari circondate da un tappeto d’erba accuratamente rasata. Un paesaggio rarefatto all’ennesima potenza, quindi, di un ermetismo intellettuale così estremo da costringere le nostre (scarse) doti intellettive a metafisici salti mortali pur di trovare qualcosa di comprensibile – e apprezzabile – in ciò che i nostri occhi osservavano.
Va bene, molti diranno che sto criticando un capolavoro e sicuramente non me lo posso permettere, dal momento che non ne ho le competenze. Ci sono rappresentazioni artistiche, infatti, che non possono essere valutate semplicemente coinvolgendo pochi sensi primitivi come vista, udito e poco altro… Ci sono opere i cui significati reconditi sono molto più importanti di ciò che si vede o si sente, e sono questi elementi che rendono queste opere dei capolavori oggettivi. Se poi non ti piacciono, allora non fa nulla, la colpa è tua, non ti sei applicato abbastanza…
Nel caso del giardino di pietra di Kyoto ho provato a sforzarmi di capire, lo giuro! Qui erano in ballo non solo concezioni estetiche ma anche la filosofia di un intero popolo e perfino la sua religione. Mi sono seduto su uno scranno di pietra (da cui poi mi hanno cacciato, perché faceva parte della composizione artistica generale) e ho messo in funzione tutte le mie cellule grigie per trovare la strada verso l’illuminazione.
Cercavo di convincermi del fatto che quel giardino era molto visitato, tutti gli stranieri mostravano grande ammirazione, interesse, stupore, le smorfie di gradimento e i gridolini di piacere si sprecavano; quindi se c’era qualcosa di sbagliato, quello ero io… La mia ricerca della verità è durata poco: il tempo di ricordare che il giardino del cortiletto interno del mio albergo, anch’esso di pietra, era molto, ma molto più carino di questo… (Ho detto “carino”, vedi? Ho sbagliato di nuovo! L’arte non è carina, figuriamoci la filosofia e la religione…)