Una delle zone paesagisticamente notevoli del Myanmar è quella che si estende a sud-est di Mandalay fino al lago Inle. Si tratta di un’area collinare e montagnosa il cui attraversamento richiede – malgrado la distanza relativamente ridotta – almeno un giorno di viaggio in macchina. E’ una tappa intermedia ma dall’importanza cruciale, perché comprende due dei posti più interessanti e controversi del paese: le grotte di Pindaya e la “piccola Toscana”.
Il lungo trasferimento è iniziato male: la strada su cui abbiamo cominciato a viaggiare era a dir poco pessima. E non perché fosse semplicemente malandata o abbandonata al degrado. Al contrario: perché era in continua manutenzione. Nel 2011, il sistema di manutenzione delle strade era piuttosto semplice: si assoldavano contadini dei campi e si invitavano/obbligavano a lavorare al manto stradale, ognuno per la tratta che corrispondeva al proprio territorio di residenza. In parole povere: la strada passa davanti a casa tua, quindi ci devi pensare tu!
La mansione, di per sé, sarebbe stata anche facile, visto che si operava con materiale e mezzi forniti dalle compagnie stradali. L’idea però che lo potessero fare dei contadini qualsiasi, tra cui la maggioranza era di sesso femminile, non sembrava funzionare granché. Per lunghissimi tratti, infatti, la strada era ridotta ad un ammasso di asfalto malmesso. Ai suoi lati scorrevano due cumuli continui di materiale, pietre, terra smossa, su cui bivaccavano, con evidente malavoglia, gli addetti alla manutenzione. Ogni tanto, di rado, si vedeva qualche gruppetto intento a rastrellare o a portare una carriola.
Insomma, per chilometri e chilometri abbiamo attraversatoa un lunghissimo, interminabile cantiere stradale. Alla media di 40 all’ora. E non si trattava di una strada secondaria, no davvero. Sonny ci ha confessato che quella che stavamo percorrendo era una arteria importante lungo l’asse viario nord-sud. Ce ne siamo accorti anche noi quando, ad un certo punto, abbiamo incrociato il primo, enorme camion cinese. La strada agibile era talmente stretta che ci siamo dovuti mettere da parte, finendo fuori della carreggiata. E per tutto il resto del tragitto la scena si è ripetuta spesso: i camion cinesi ci venivano incontro senza alcuna considerazione, forti della loro imponenza, e noi ogni volta ci mettevamo da parte, mettendo a rischio pneumatici e ammortizzatori.
La situazione è peggiorata, sopratutto in termini di velocità, una volta che abbiamo affrontato le prime curve in salita. Ogni volta che incontravamo un camion che andava nel nostro verso eravamo costretti a rallentare e aspettare semplicemente che svoltasse o si togliesse dalla strada volontariamente. Altre alternative non ce n’erano; qualsiasi sorpasso, effettuato a 30 all’ora, in salita, su una strada strettissima, con visibilità ridotta, con un traffico sempre più intenso, sarebbe stato un suicidio.
Quando siamo arrivati a Kalow eravamo letteralmente disfatti. E avevamo percorso appena 200 chilometri in 6 ore! Avevamo bisogno di rimettere in sesto la circolazione e quindi non abbiamo neppure pensato per un minuto di andare a riposare. Ci siamo messi a girare per questa amena cittadina montana (1327 metri) godendoci il freschetto serale e osservando la febbrile attività delle sue strade. La sera, poi, ricordo che siamo andati a mangiare in un ristorante nepalese. Ottimi curry di tutti i generi ma servizio piuttosto lento e sonnacchioso. Una delle proprietarie, inoltre, sembrava aver perso qualcuno di recente, perché ogni volta che ne aveva modo si accucciava davanti a una specie di altarino con delle foto. Si copriva il capo con uno scialle e cominciava a pregare e piangere. Ogni tanto le ragazze che servivano ai tavoli la raggiungevano per consolarla…
Una scena che non ci ha sollevato molto il morale, devo dire, dopo una giornata di scossoni e curve a gomito.