Riuscire a piazzare il proprio figlio in monastero per tutta la vita è il sogno di ogni famiglia birmana. E’ sicuramente un destino ben più roseo di quello che le sponde del lago Inle riservano da secoli ai propri abitanti. In confronto agli stenti, le privazioni, la povertà quasi assoluta che caratterizza questa terra, trascorrere il resto della propria vita in un luogo in cui il vitto e l’alloggio saranno sempre e comunque garantiti, è comunque una notevole via di scampo.
Di conseguenza, il giorno in cui i neo-monaci sostengono (e superano) l’esame di cui ho parlato qui diventa il momento più importante e soddisfacente di tutta la carriera di un genitore. L’occasione, forse unica in una intera esistenza, per festeggiare un cambiamento radicale e positivo. Sicuramente per la famiglia stessa, forse un po’ meno per il ragazzo monaco.
Un giorno come questo bisogna celebrarlo nel migliore dei modi. E quale modo è più adeguato di una grande festa di massa? Organizzata, gestita e condivisa tra tutte le famiglie che hanno dato un monaco alla comunità? Un sistema semplice ed economico, a pensarci bene, per dividere spese e incarichi e quindi alleggerirne il peso. E una occasione di stare insieme, tra famiglie e clan delle diverse etnie, accanto al monastero e al mercato, i due luoghi simbolo della comune identità locale.
La festa in questione consiste in sostanza in un grande pranzo collettivo. I familiari dei neo-monaci si danno da fare, fin dalla mattina, per sistemare i tavoli in ordinate file parallele, all’interno di capannoni appositamente costruiti allo scopo. Ogni tavolo, come si vede dalla foto principale di questo articolo, sono da 4-5 coperti. Le pietanze pronte sono in genere degli stuzzichini a base di verdure o carne fermentata. Il cibo più consistente (riso e carne o pesce cotto) arriverà in seguito, quando tutte le famiglie si accomoderanno ai tavoli loro destinati e il pranzo inizierà ufficialmente. Allestire le sale, cucinare, lavare le stoviglie e sgombrare tutto è quindi compito dei familiari, che lo eseguono a quanto sembra volentieri e piuttosto allegramente.
Questo momento conviviale coinvolge come abbiamo detto tutti i familiari dei neo-monaci, ma non quest’ultimi. Essi, infatti, appartengono adesso al monastero, non possono più avere nulla a che fare con le proprie famiglie o con la vita del passato. Da questo momento, tolto un fugace saluto, il giovane novizio è strappato ai suoi cari e consegnato alla rigida disciplina del tempio a cui è destinato. Il che non impedisce che i festeggiamenti non debbano proseguire senza alcun rimpianto eccessivo.
Come accennato prima, diventare monaco, in Myanmar, è un sacrificio emotivo e affettivo che vale la pena sostenere. Non è quindi uno scandalo che queste persone festeggino un evento che, in fin dei conti, allontanerà i loro cari dalla casa in cui sono nati e cresciuti. Ma non per sempre. Le occasione di rivedersi saranno molteplici, tante almeno quante sono le cerimonie religiose che coinvolgono la popolazione civile. Che sono davvero molte…
Perdere un figlio (o una figlia) è un sacrificio che viene filosoficamente ricompensato da due innegabili vantaggi. Il primo deriva dalla consapevolezza che il neo-monaco non avrà più problemi di sostentamento, né che – più egoisticamente – ne procurerà alla famiglia. La seconda convinzione, piuttosto diffusa in Myanmar, si fonda sull’idea che aver donato un figlio al tempio possa accrescere la possibilità di acquisire meriti per l’aldilà. Si tratta in poche parole di un investimento sul proprio futuro fatto sulla pelle di un altro.