Nessuna città è davvero brutta. Ci sono zone che potrebbero piacere di meno, certo, ma non credo che l’urbanistica di una città possa rientrare nelle categorie del bello e del brutto. Con una eccezione, però: le città cinesi. O meglio, le città cinesi di qualche anno fa. Mi riferisco a quegli enormi conglomerati urbani composti da quartieri che paiono stampati in serie e in cui gli edifici sembrano tutti uguali e tutti, invariabilmente, orribili. Ebbene, Nanchang, capitale della provincia dello Jiangxi, nel 2015 era una di queste città.
Siamo arrivati a Nanghang una mattina piuttosto fredda e nebbiosa. Non ci è voluto molto a scoprire che anche laggiù, come in quasi tutta la Cina, l’umidità non è la prima causa della onnipresente foschia. Appena scesi dal treno, malgrado la confusione, siamo riusciti a individuare subito Suzhan (la futura moglie del mio amico Guido) e sua cugina (quella bella, a detta di Guido). I convenevoli sono stati eccezionalmente brevi – e fin troppo freddi, mi è parso – ma non avevamo tempo da perdere. Dovevamo raggiungere al più presto l’uscita e prendere un taxi per l’albergo, dove ci saremmo andati a dare una rinfrecatina in vista dell’imminente cerimonia di matrimonio.
Racconterò di questa cerimonia, per filo e per segno, negli articoli che seguiranno. Qui, per adesso, mi preme dare una descrizione, sia pure sommaria, di Nanchang. La stazione centrale, enorme e caotica come tutte le stazioni cinesi, è collocata nel centro virtuale della città, proprio di fronte ad un edificio a forma di pi greco colorato di azzurro. E’ questo enorme blocco di cemento che attira immediatamente lo sguardo e incute, in un certo senso, una certa inquietudine. E’ l’unico edificio con una fisionomia originale. Tutti gli altri, ovunque ci si giri, sono palazzoni con balconi che, pur avendo la forma e l’altezza di grattacieli, non sembrano appartenere pienamente a questa tipologia.
Durante la corsa in taxi ho osservato molte delle caratteristiche tipiche di tutte le grandi città cinesi. Grandi vie a più corsie che vengono intersecate da vicoli stretti e maleodoranti; piazze brulicanti di persone, tutte straordinariamente affaccendate, e traffico al limite dell’ingorgo perpetuo; enormi centri commerciali, alcuni dall’aspetto moderno, altri più dimessi; mercati sterminati le cui bancarelle, a volte, invadono i marciapiedi e le strade, intralciando ulteriormente il regolare corso della viabilità. Insomma, anche a Nanchang si respira la vera, autentica, genuina aria cinese.
Il nostro albergo non si scostava di un millimetro dallo stereotipo. Era un 5 stelle in cui Guido aveva prenotato una suite ad ore – il tempo strettamente necessario, cioè, per riprenderci dopo la notte in treno. L’edificio era piuttosto moderno, è vero, ma progettato in quello stile da realismo comunista anni 50 che lo rendeva fin troppo austero. L’interno, poi, era poco appariscente, quasi atono, con i suoi corridoi scarsamente illuminati, i pavimenti invariabilmente foderati in moquette e le sue camere arredate in modo essenziale. Un albergo per uomini di affari, mi è parso, da una notte e via. Dove non sarebbe stato uno scandalo incrociare qualche escort di alto bordo…
L’unico elemento piacevole: la vista. La camera, infatti, era collocata in uno degli ultimi piani della costruzione. Il panorama che avevamo di fronte, dietro alle enormi finetre (tutte implacabilmente serrate), era quello che fa da copertina a questo post. Come si può definire? Non lo so, lascio giudicare ai lettori. Ciò che però mi ha colpito di questa struttura urbana – e in qualche modo avvinto – è stata la consapevolezza di trovarmi di fronte ad un progetto di largo respiro. Niente era lasciato al caso, neppure la realizzazione della più piccola e insignificante infrastruttura.
Tutto sembrava essere stato concepito per realizzare un equilibrio fra estetica ed efficienza costruttiva. Ma senza mai esagerare, ovviamente. Ogni edificio, dal più antico al più recente, sembrava rispondere ad una logica ferrea, tenacemente perpetuata nel tempo e riprodotta fedelmente per qualsiasi progetto e in qualsiasi occasione. E forse era questa la ragione della straordinaria rapidità con la quale i cinesi riescono a finire le loro opere in tempi per noi europei – e italiani in particolare – impensabili. Ci riescono, ho pensato, perché non fanno altro che riprodurre un modello standard, solido e consolidato. Da realizzare in infinite varianti, naturalmente, alcune più moderne altre più tradizionali, che però non ne intaccano la solidità costruttiva e la funzionalità.
Queste considerazioni hanno pertanto modificato improvvisamente la mia visione delle cose. Quel panorama, fino a pochi minuti prima ritenuto atono e deprimente, mi è sembrato improvvisamente prendere forma e personalità. In breve, l’ho trovato persino bello – per quanto possa ritenersi bello un panorama urbano, ovviamente.