Un viaggio in India del Sud lascia sempre qualche strascico. Emotivo, innanzitutto, perché il carico di sentimenti che si prova laggiù in ogni occasione è decisamente eccessivo. Non c’è un luogo che lasci indifferente, in un senso o nell’altro. Davanti alle meraviglie e le contraddizioni di questo grande paese è difficile mantenersi neutri, asettici, immuni da qualsiasi giudizio. Le reazioni emotive sono quasi sempre o fortemente negative o – al contrario – decisamente positive. Non ci sono vie di mezzo, insomma.
Si può passare, nel corso di pochi minuti, dalla meraviglia allo sgomento. Un attimo prima siamo in trasecolata ammirazione di un tempio o di un edificio particolarmente elaborato; un minuto dopo, ci avvolge una sensazione di ribrezzo, perfino di nausea, passeggiando per le vie sporche, affollate, maleodoranti di un mercato o di una lavanderia a cielo aperto. Dove prima c’era ordine, pulizia, armonia, adesso ci troviamo immersi in un modello 2.0 dell’inferno dantesco sulla terra, dove i più poveri, i dimenticati, i paria della società indiana sopravvivono a stretto contatto con l’opulenza dei più fortunati. Questa immagine è reale, posso assicurarlo: a Mumbai, non solo negli Slums, i dannati della terra vivono ancora in condizioni che uno stato moderno e ambizioso come l’India non dovrebbe permettersi.
Da qui emerge la classica “riflessione spontanea”. Ma che paese è l’India? E’ sicuramente un paese in cui le divisioni, a volte sfumate, più spesso nette, sono ancora evidenti. La prima, quella che mi ha colpito di più, è la differenza tra metropoli e resto del paese. Le grandi città raccolgono da decenni milioni di immigrati provenienti dalle campagne o dalle cittadine circostanti. Questi immigrati lasciano i loro luoghi di origine perché pensano – probabilmente influenzati dalla propagandate di televisione e cinema – che in città le condizioni di vita siano migliori di quelle di partenza. Un calcolo spesso errato, che riduce città come Mumbai, Delhi o Calcutta a dormitori a cielo aperto, dove migliaia di persone vivono in condizioni ben peggiori rispetto a quelle che avevano lasciato. Ancora oggi è estremamente facile vedere tettoie improvvisate sui marciapiedi, rifugi di fortuna circondati da spazzatura, dove si accalcano intere famiglie che non hanno altro posto dove dormire.
La campagna, al contrario, non sembra così male in arnese. In qualche modo, la vita rurale garantisce ancora quel minimo di dignità che la città invece ti nega. Il poco che offre un’economia agricola sembra garantire almeno un livello di sussistenza decente, in grado cioè di garantire i servizi essenziali, la scuola per i bambini, un tetto solido sulla testa e soprattutto cibo sufficiente per tutti. La mia impressione in tal senso è stata positiva. Non appena abbiamo lasciato Mumbai, ecco che l’India ci ha mostrato il suo volto più sereno, pacifico, bucolico, dove persino gli autisti di auto e camion sembravano più educati. La povertà vista a Mumbai, insomma, l’abbiamo lasciata a Mumbai.
Un altro fattore di divisione è la lingua. In India, ancora oggi e malgrado gli sforzi titanici di vari governi, non esiste una unica lingua nazionale. Decenni di indottrinamento forzato, condotto tramite la scuola, la televisione e soprattutto il cinema di Bollywood, hanno diffuso la comprensione dell’hindi, la lingua del nord dell’India scelta come idioma ufficiale, ma i risultati sono ancora davvero mediocri. In ogni stato indiano, infatti, si continua a parlare la lingua del posto (23 lingue ufficiali e più di 2000 dialetti). In alcune aree può essere simile, o comunque comprensibile, ad un indiano di aree limitrofe; in altre risulta assolutamente incomprensibile, come nel caso del bengalese. Questa situazione ha determinato il più grande paradosso indiano: per capirsi tra di loro, gli indiani utilizzano l’inglese. Ovvero la lingua degli odiati colonizzatori europei! Ci è capitato molte volte di assistere a dialoghi tra personale dell’hotel e ospiti in quell’inglese gutturale e labiale che è la versione indiana della lingua di Shakespeare.
Infine una parola a proposito dell’industria del turismo. Devo essere sincero: mi aspettavo qualcosa di meglio, di più capillare, qualcosa per intenderci simile a posti come Thailandia e Malesia. Niente di tutto questo. Non sono andato a Goa, che probabilmente è il luogo più frequentato da un certo turismo internazionale e quindi, per forza di cose, più organizzato in tal senso. Mi riferisco al Kerala che, almeno sulla carta, sembrava un posto turisticamente allettante. Lo è senz’altro, ne ha tutte le potenzialità, eppure di turisti se ne vedono ben pochi. Le infrastrutture, peraltro, ci sono, gli alberghi di buon livello anche, le località attrezzate per ospitare il turismo di massa esistono, specie sulla costa, ma i turisti occidentali latitano. L’unico turismo di massa in Kerala è quello locale, indiano, ad opera di famiglie ricche o comunque benestanti che si spostano a bordo di enormi sub da 7-9 posti con autisti privati e alloggiano negli alberghi dalle 4 stelle in sù (ove disponibili).
Insomma, il Kerala, malgrado l’incessante azione di promozione evidente sul web, non sembra ancora attirare il turismo occidentale che invece, a parità di latitudine e clima, preferisce ancora recarsi in località come Puhket o Bali, dove almeno gli alcolici sono permessi e il mare è decisamente meno terrorizzante…