Il mio unico, breve, faticoso trekking nella giungla

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Notte d’insonnia e bisogni impellenti

Paola, ancora ignara di come sarebbe andata la nottata…

L’espressione divertita di mia moglie di questa foto testimonia lo spirito con cui noi due, allegri quarantenni senza alcuna esperienza, stavamo affrontando quell’avventura. Fino al momento di andare a dormire non c’era nulla, ma proprio nulla, che potesse incrinare tale dose di buon umore. Ma poi gli eventi ci hanno travolto ed è iniziata una delle nottate più spaventose e folli della nostra vita.

Ecco ciò che è successo, rigorosamente in ordine cronologico.

Ore 21:00. Ci mettiamo giù e pensiamo – senza dubbio a ragion veduta – che dopo tutti gli strapazzi del giorno dormiremo benissimo. Invece niente da fare. La pioggia ha ripreso a cadere e il frastuono che produce sulle lamiere dei tetti è assordante. Inoltre, Paola fin da subito inizia a lamentarsi perché a suo modo di vedere c’è una zanzara che circola all’interno della zanzariera. Il che non sarebbe poi qualcosa di inverosimile, data la quantità di strappi e buchi che l’involucro presenta. Comincia perntanto la caccia all’intruso che si protrae per almeno un’oretta, nel buio più assoluto, senza ovviamente dare risultati. Infine mia moglie si mette il cuore in pace e si torna a dormire.

Ore 22:00. Ho appena preso sonno e Paola mi sveglia nuovamente. Dice che non riesce a chiudere occhio, è infastidita dall’idea di dover convivere all’interno della stessa tenda con una potenziale inoculatrice di malaria (la zanzara di prima). In realtà, come abbiamo capito dopo, sia io che lei stiamo cominciando a patire l’assunzione di Lariam, il farmaco profilattico anti-malaria che stiamo prendendo ormai da 3 giorni. L’insonnia, infatti, è uno degli effetti collaterali più frequenti. Per confortarla, inizio a irrorare di spray anti-zanzare le pareti della tenda. Poi ricontrollo se ci sono lati scoperti e riavvolgo per l’ennesima volta i lembi della zanzariera sotto ai sacchi a pelo.

Ore 23:30. Mia moglie si agita e si lamenta. Non capisco se sia in preda ad un incubo o stia male. La tocco: è bollente, ha la febbre. Le faccio prendere una aspirina e spero che non sia qualcosa di peggio di una semplice reazione alla fatica.

Ore 00:30. A questo punto sono io che non ho più sonno. E mia moglie comincia a lamentarsi che deve andare al bagno. Le chiedo se ha un’idea, seppur vaga, di dove si trovi il bagno da quelle parti. Mi risponde che dovrebbe essere giù, nel cortile, poco distante dal luogo dove abbiamo cenato. Realizzo immediatamente che una toilette posta al centro di un villaggio karen è, nelle nostre attuali precarie condizioni, come andare su Marte senza ossigeno. Le chiedo quindi se è proprio così urgente, sperando che si tratti del bisogno breve. Niente affatto, è tutt’altro, occorre proprio che trovi un bagno e alla svelta!

Ore 00:45. Non c’è altro da fare che tentare di raggiungere la fatiscente cabina che funge da toilette. Non si trova distante, a dire il vero, ma in quelle condizioni di tempo, clima, oscurità e bisogno impellente equivale ad una missione impossibile. Nondimeno, ci alziamo, ci muniamo dell’unica torcia che possediamo (l’altra, data in dotazione dall’agenzia, è sempre stata fuori uso), e silenziosamente, sperando di non disturbare nessuno, ci dirigiamo verso la scala che ci condurrà di sotto.

Arrivati giù ci troviamo davanti al primo ostacolo: il manto di fango che stazionava sotto la scala è nel frattempo aumentato in altezza e larghezza. Appena Paola ci mette il piede sopra affonda fino alla caviglia! E io pure, naturalmente, ma a quel punto il dado è tratto, bisogna andare avanti. Faticosamente, lentamente, soppesando un passo alla volta, ci dirigiamo nel buio quasi totale verso il punto in cui – a memoria – dovrebbe sorgere la capannuccia con la toilette. E meno male che ha smesso di piovere…

Ore 00:55. Ormai a non più di 15 metri da essa, ci accorgiamo che il fango, in quella zona, è troppo esteso per permetterci di camminarci dentro senza rimanere impantanati. Dobbiamo aggirarlo, costeggiando un edificio da cui provengono strani rumori. Iniziamo a muoverci, sempre più timorosi e circospetti, sobbalzando a qualsiasi rumore, anche il più naturale del mondo. Un cane ci viene incontro scodinzolando, seguito da un altro, più timido. Non sembrano avere intenzioni ostili, ma la loro estrema magrezza e la situazione contingente, non certo adatta a favorire confidenze, fanno crescere in noi l’apprensione.

Giunti davanti all’ingresso dell’edificio, non resta altro da fare che percorrere gli ultimi 5-6 metri per raggiungere il gabbiotto. Ma ecco l’ultima, estrema, terrorizzante apparizione di quella notte da incubo. Il rumore che avevamo avvertito prima si fa più forte e continuo. E’ prodotto da qualcosa di metallico, che sbatte, che si agita, seguito da un ruggito sordo e sommesso che accappona la pelle. Non c’è neppure il tempo di farsi inutili domande che ecco apparire, sulla soglia della capanna, un enorme bufalo con un paio di corna lunghissime. E’ una specie di Minotauro asiatico: le sue dimensioni sono di gran lunga superiori a qualsiasi altro bovino visto in Oriente. Alle corna, così allungate e quasi dritte, sono agganciate due catene: sono loro che producono il rumore metallico udito pocanzi. E sono loro, allo stesso tempo, che impediscono al ruminante di andare oltre quei pochi passi compiuti verso l’esterno.

In altre circostanze sarei andato su di corsa per prendere la macchina fotografica e immortalare la scena. Ma non quella sera. Il bufalo, malgrado sia bloccato dalle catene, si è ormai messo di traverso tra noi e la toilette. E non sembra avere alcuna intenzione di rientrare nella stalla. Non c’è verso di arrivarci, a meno di non fare un altro largo giro che si perde nella giungla. Paola sbraita e si lamenta: deve liberarsi, in qualsiasi modo, non ne può più. E allora, spinti dalla necessità e dall’impellenza, prendiamo la decisione più ovvia: le dico di accucciarsi da qualche parte, possibilmente contro vento, e di evacuare lì, all’aperto, sotto il cielo cupo e nuvoloso, davanti ad un pubblico di maiali, cani pulciosi e un bufalo che rumina incessantemente.

Paola non se lo fa ripetere due volte. Il tempo di rialzarsi e realizziamo improvvisamente cosa abbiamo appena compiuto. La prova del misfatto sta lì, davanti ai nostri occhi, piazzata peraltro proprio al centro dell’abitato, in bella vista. Come faremo a giustificarlo, l’indomani, davanti a tutto il villaggio e ai nostri compagni di viaggio? Neppure il tempo di formulare tali quesiti che succede il miracolo. I due cani, evidentemente spettatori interessati dell’intera vicenda, si precipitano sul misfatto e in un battito di ciglia se lo ingurgitano e lo fanno sparire dalla circolazione! Meglio di un servizio di pulizie…

Ore 01:20. Ancora scossi da tutta la vicenda, orrendo pasto dei cani compreso, ci dirigiamo verso i nostri alloggiamenti con il cuore più leggero. Torniamo su altrettanto silenziosamente di quando siamo scesi e ci rimettiamo a dormire. Paola sta meglio, sembra perfino sfebbrata. Evidentemente l’avventura le ha procurato un piccolo shock benefico che le ha permesso di superare lo stress da strapazzo. Ci mettiamo giù per dormire, e da questo momento in poi, tra mille risvegli e altrettanti sonni pesanti come pietre, riusciamo ad arrivare al giorno dopo.

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