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Terza tappa: un bagno nella cascata
Il programma di giornata prevedeva il bagno in una piccola cascata montana. Un’occasione divertente, defaticante, rinfrescante, studiato apposta per tirare sù il morale degli escursionisti, presumibilmente provati dalla durissima ascesa. Anche io mi ero preparato all’evento, essendomi abbigliato fin dall’inizio con dei pantaloncini-costume. Fino a quel momento pensavo che nessuna cosa al mondo mi avrebbe impedito di godermi il mio meritato tuffo nelle acque fresche di un torrente thailandese. Ero convinto che sarebbe stata una esperienza gratificante e che, tutto sommato, con il caldo che c’era, mi avrebbe anche fatto bene.
Questo in teoria. In pratica, è andata in tutt’altro modo. E sono stato costretto a rivedere non solo il mio programma giornaliero ma anche il modo in cui avrei dovuto affrontare il resto di quell’avventura. Mi sono trovato infatti in compagnia di mia moglie sul ciglio di una scarpata, ansimante e malmesso sulle gambe, intento solo a riprendere fiato e osservare in fondo un laghetto non più grande di una piscinetta per bambini, raggiungibile unicamente tramite un sentiero fangoso attraversato da viscide radici. Un percorso che ha messo i brividi perfino ai nostri giovani compagni di avventure, nei quali ho intravisto, per la prima volta, qualche debole segnale di insicurezza.
Ma oramai il dado era tratto. Il ragazzo australiano, con la tipica incoscienza fracassona della sua razza, si è tolto la maglietta e ha iniziato a scendere quasi di corsa. Neppure 10 passi ed è scivolato all’indietro, cadendo sulla schiena e finendo l’ultimo tratto del sentiero praticamente sul sedere. Stessa sorte anche per il danese, che è scivolato un paio di volte e alla fine ha preferito terminare il tragitto a quattro zampe. Le ragazze, invece, più prudenti, hanno preso una via più lunga, meno fangosa e fornita di appigli di ogni genere, giungendo in fondo illese. Dall’alto del dirupo, abbiamo assistito quindi al bagno dei 4 giovani che, devo dire, sembravano divertirsi un mondo tra tuffi e battaglie di schizzi. Gnam, dopo averli accompagnati giù, è risalito e mi ha invitato a scendere.
Io ho soppesato pacatamente la situazione. Probabilmente sarei riuscito a scendere senza particolari patemi, sfruttando gli errori commessi da chi mi aveva preceduto. Sarei anche arrivato sano e salvo giù, non c’erano dubbi. Ma poi? Sarei dovuto risalire. E da quanto vedevo, il ritorno non sembrava meno complicato dell’andata. Inoltre, mentre ragionavo tra me e me (Paola aveva già deciso categoricamente che avrebbe fatto a meno del bagno nella cascata), aveva ripreso a piovere leggermente. Mi sono seduto su un masso e ho capito che il gioco non valeva la candela. Fra scendere e salire avrei probabilmente sprecato più energie del dovuto. E da quanto avevo capito, restavano ancora molti chilometri di cammino prima della prossima sosta.
Quindi ho desistito. Ma non ho avuto modo di riposarmi troppo a lungo. Mi sono accorto, infatti, che proprio sotto di me scorreva un fiume di formiche rosse in piena fase di trasferimento di larve e uova. Mi trovavo quindi nel luogo forse più pericoloso in assoluto di una foresta pluviale! Sono saltato in aria prima che una di esse mi individuasse come potenziale minaccia e mi assalisse. E c’è mancato poco, posso assicurarlo, perché molte ore dopo ho trovato alcune formiche lunghe un centimetro dentro la borsa della videocamera!…
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