Il mio unico, breve, faticoso trekking nella giungla

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I compagni di viaggio

Durante il breve tragitto che ci conduceva verso la prima tappa del tour (l’Elephant riding), ho avuto modo di inquadrare in modo sommario i miei futuri compagni di viaggio. Iniziando dagli australiani – i più esotici, da punto di vista geografico, perché li vedevo per la prima volta in carne e ossa. I due giovani erano l’immagine stessa della freschezza, della gioventù, della salute e di tutto ciò che di bello e salubre caratterizza la razza umana e che, di contro, procura le invidie più cocenti in chi ne è privo. I ragazzi sembravano godersi un mondo l’avventura. Non esisteva nulla che potesse rovinare quel momento: urlavano e sghignazzavano per un nonnulla, si scambiavano battute a raffica in un inglese incomprensibile, almeno per me e mia moglie, abituati a cadenze più oxfordiane.

La ragazza australiana era abbigliata con tutto ciò che si raccomanda di non vestire quando affronti un trekking nella giungla: short cortissimi che lasciavano scoperte gambe belle e affusolate ma irrimediabilmente esposte a sole e punture di insetti; una maglietta di cotone striminzita che in un attimo ha cambiato colore per quanto fosse fradicia di sudore; niente cappelli, né creme solari, né zaini di alcun genere. E ai piedi – orrore! – semplici infradito, nella moda dei locali. Il giovane, da parte sua, si è presentato in short e a torso nudo, e per gran parte del viaggio ha evitato religiosamente di indossare la maglietta.

I due danesi non erano da meno. Anch’essi sfoggiavano abiti succinti e sandali da mare. L’unica cosa che li distingueva era l’armamentario fotografico – davvero notevole – e la presenza di uno striminzito zainetto dentro cui avevano stipato solo bottiglie d’acqua.

Prima tappa: Elephant riding

Un elefante si avvia al riposo dopo il turno di lavoro

Pochi chilometri in salita, all’interno di uno scenario che via via diventava sempre più silvano e impenetrabile, ed eccoci arrivati al primo check point di giornata: il campo di addestramento degli elefanti. Uno dei tanti che circondano Chiang Mai, a dire il vero, e neppure uno dei più ricchi di attrattive, visto lo stato di semi-abbandono di alcune strutture presenti. Ma noi allora non ne avevamo coscienza e ci è sembrato il luogo più affascinante del mondo.

Il tour prevedeva una prima fase di familiarizzazione con il luogo, il cui scopo, malgrado le rassicurazioni, non sembrava quello di rintrodurre i pachidermi alla vita selvatica da cui erano stati sottratti. In effetti, tutti gli elefanti che abbiamo visto lavoravano a pieno regime per trasportare la gente avanti e indietro nella foresta. Nell’attesa che allestissero il nostro, abbiamo preso confidenza con il campo, i suoi ritmi, e tutte le attività degli elefanti, come il feeding time, la passeggiata verso il laghetto, il bagno di fango, il rito della pulizia.

Un elefantino recalcitrante durante l’escursione

L’organizzazione prevedeva che ogni coppia fosse ospitata sul dorso di un animale. Il baldacchino era molto semplice, composto da una tavola posta trasversalmente sul dorso del pachiderma e sormontata da una specie di panchetta di legno, in verità molto scomoda. Il nostro mahout, ovvero il tipo che monta sul collo del pachiderma e lo guida, era un ragazzino imberbe, ed è forse per questo che ci è toccato l’elefante più piccolo – e instabile – di tutti. Quello peraltro che chiudeva sempre la fila.

I danesi, invece, sono stati affidati ad una vecchia femmina che si è presentata con il piccolo al seguito. L’elefantino è stato l’oggetto principale della nostra attenzione, malgrado la bellezza dei luoghi che attraversavamo, perché si comportava proprio come un ragazzino capriccioso e svogliato. Ogni tanto si fermava, si appoggiava alle zampe della madre rifiutandosi di muoversi. Oppure si lasciava andare per terra, specie dove trovava del fango, e non c’era verso di smuoverlo. In una occasione la madre ha dovuto usare la proboscide con una certa severità per costringerlo a tornare in riga.

La gita è durata un paio d’ore. Posso assicurare che sono più che abbastanza per farsi un’idea di come si vada a dorso d’elefante. La verità è che non si tratta di una esperienza del tutto piacevole, non almeno come ci si aspetterebbe. L’animale sbanda vistosamente, barcolla, si protende pericolosamente in avanti o all’indietro, a seconda dell’inclinazione del terreno, constringendo i turisti ad aggrapparsi alle proprie panche con tutte le proprie forze. In talune circostanze, specie sui terreni viscidi, sembra quasi che sia sul punto di scivolare, e la sensazione di vuoto che segue è davvero raggelante.

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