Il mio unico, breve, faticoso trekking nella giungla

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Prepararsi per il trekking

Dopo il pagamento e i convenevoli del caso, ci siamo dati l’appuntamento davanti all’agenzia per il mattino dopo, di buon’ora. Il giorno era cupo, funestato da una coltre di nubi spessa e impenetrabile che non faceva presagire nulla di buono. E questo malgrado le assicurazioni che il tempo sarebbe stato clemente. Appena arrivati, due sonnacchiosi ragazzi ci hanno consegnato uno zaino militare anni Settanta ciascuno. All’interno erano stipati, alla bell’e meglio, un paio di bottiglie d’acqua da 1 litro e mezzo, una asciugamani, anch’essa in condizioni precarie, e una specie di poncho di plastica, spesso e pesante, che avrebbe dovuto proteggerci dalla pioggia.

Noi, da parte nostra, ci eravamo preparati come meglio potevamo. Io indossavo abbigliamento tecnico dalla testa ai piedi, e così mia moglie. Il risultato era piuttosto ridicolo, visto che sembravamo più escursionisti della domenica della Val Brembana che trekker pronti ad affrontare pantani, fango e foreste umide. Mia moglie, in particolare, aveva sbagliato radicalmente la scelta delle scarpe. Convinta da una commessa, evidentemente poco informata, che la scarpa ideale sarebbe stata quella con il carrammato e la caviglia alta, si era presentata con due enormi scarponi da neve da fare invidia a Fantozzi.

Avevamo però un’asso nella manica, che si rivelerà prezioso al momento opportuno. Da buoni italiani che temono qualsiasi inconveniente o contrattempo, ci eravamo preoccupati di portaci un cambio di tutto: una maglietta, un costume, un pantaloncino, perfino le mutante e i calzini. Un ingombro notevole, per i nostri zaini già colmi, che però si è rivelato vincente nel proseguo dell’escursione.

Arrivo al campo base

Una volta abbigliati e riforniti di numerose bottiglie d’acqua, ci hanno caricato su un songthaew malandato, privo di qualsivoglia forma di sospensione, e trasportati fuori città. Il tragitto si è svolto senza particolari sussulti, se si escludono i frequenti rovesci di pioggia che ci tormentavano di tanto in tanto. Il mezzo, infatti, possedeva sì una tettoia, ma era completamente aperto su tre lati su quattro. Di conseguenza, siamo stati costretti ad accucciarci in fondo al pick-up, proprio a ridosso della cabina dell’autista, ovvero nel punto meno esposto alle intemperie. Cosa che non ha impedito di bagnarci le estremità, scarpe costose comprese.

I dintorni del campo base

Il viaggio non ha occupato più di un’ora e mezza, ma ci è sembrato interminabile. Giunti a destinazione, ci hanno scaricati in una specie di autogrill presso il quale avremmo consumato il nostro pranzo (compreso nel pacchetto) e atteso tutti gli altri partecipanti che provenivano da altri alberghi di Chiang Mai. Il posto sembrava frequentato quasi esclusivamente da persone come noi, escursionisti un po’ arrangiati, in ansiosa attesa della propria guida, alle prese con quello che sui depliant era descritto come una “tipica colazione thailandese” e invece era un piatto di riso fritto con (poche) verdure e (tante) cartilagini di pollo…

E intanto fuori continuava a piovere a dirotto, tanto da farci temere (o sperare) che il trekking potesse saltare. L’attesa tuttavia è durata davvero poco. Il tempo di sparecchiare e ci siamo sentiti chiamare. Un altro furgoncino ci attendeva in strada, questa volta scoperto, ma grazie al cielo aveva cessato di piovere. Su quel mezzo scomodo e sgangherato abbiamo conosciuto i nostri futuri compagni di avventura: una coppia di australiani e una di danesi, tutti decisamente giovani, magri, linguisticamente affini e invariabilmente biondi.

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