Il mio unico, breve, faticoso trekking nella giungla

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Ultima tappa: il bamboo rafting

Un facile sentiero lungo un canale

Di villaggio in villaggio, la nostra camminata si è trasformata in una piacevole passeggiata in campagna. Le salite, i tormenti, le difficoltà e i disagi del giorno prima sembravano essere un ricordo sfumato e vagamente sgradevole.  Anche le disavventure della notte erano oramai oggetto di divertimento e risate soffocate.

Questo trasferimento – perché tale era in sostanza – serviva unicamente ad avvicinarsi all’ultima tappa del nostro trekking nella giungla. Avremmo infatti concluso il giro con il pezzo forte di tutta l’escursione, il famigerato bamboo rafting. Giunti nei pressi di un canale, abbiamo abbandonato la strada, sempre più transitata di persone e mezzi, per seguire il corso d’acqua nel fitto della foresta. Ma questa volta niente panico. Il cammino era agevole, perché il sentiero che costeggiava il canale era ampio e ben tenuto.

Dopo un paio di passaggi da una parte all’altra del canale, il panorama ha iniziato ad aprirsi davanti ai nostri occhi. La foresta è divenuta meno fitta, il sentiero ha iniziato a pendere decisamente verso il basso e nel breve giro di pochi minuti ci siamo trovati davanti ad un allegro torrente, alimentato dall’acqua del canale, che si gettava, dopo qualche rapida di poco conto, in un fiume più ampio e tranquillo.

L’ultimo ruscello prima del bamboo rafting

La presenza di un gran numero di persone, in gran parte turisti, ci ha convinti di essere finalmente arrivati. A dire il vero la confusione sembrava regnare sovrana. Torme di vacanzieri, tutti a quanto pare scampati ai loro rispettivi trekking nella giungla, si ammassavano sulle rive del fiume in attesa di qualche evento importante. Il corso d’acqua, peraltro, era stranamente sgombro di imbarcazioni. Non era lì, ci ha poi confermato Gnam, che avremmo preso le zattere di bambù. Quello era solo il punto di ritrovo per smistare gli escursionisti e dividerli tra chi sarebbe tornato al campo base navigando sul fiume e chi avrebbe deciso di prendere un pick-up e quindi la via più comoda.

Io e mia moglie ci siamo guardati in faccia. Dalle immagini che avevamo visto in agenzia le zattere avrebbero attraversato alcuni punti in cui le rapide, lungi dall’essere pericolose, ci avrebbero comunque inzuppati da capo a piedi. O almeno così credevamo. Paola non se la sentiva di affrontare la discesa su una instabile zattera esposta alla furia dell’acqua, e quindi ha deciso per il trasporto su strada. Io, al contrario, non avei rinunciato mai e poi mai a quell’esperienza – che pensavo non avrei mai più affrontata – e quindi ho consegnato a mia moglie la macchinetta fotografica, la videocamera, lo zaino e le ho raccomandato di riprendermi all’arrivo.

Paola è andata via su un comodo furgoncino mentre io ho seguito Gnam e i due danesi lungo il fiume. Pochi passi e ci siamo trovati di fronte ad una specie di rimessaggio dove le zattere erano radunate lungo la riva su più file parallele. L’assegnazione alla propria imbarcazione avveniva in questo modo: i turisti (mai più di 4 alla volta) passavano di zattera in zattera fino a raggiungere la più esterna, quella pronta a partire, e così si staccavano dal resto della flotta e iniziavano il loro rafting. Questo sistema garantiva a tutti i proprietari delle imbarcazioni la sicurezza di poter trasportare qualcuno, prima o poi, e ai turisti di non aspettare mai troppo a lungo il proprio turno. Inoltre, assicurava una distanza minima di sicurezza tra una zattera e l’altra.

Le zattere del nord della Thailandia sono quasi identiche a tutte le altre imbarcazioni simili in Oriente. In pratica sono formate da una piattaforma composta da un numero variabile di enormi tronchi di bambù affiancati l’uno all’altro e legati con delle fibre vegetali. Le più piccole sono strette e lunghe (non più di 10 tronchi) e le persone possono utilizzarle solo se si siedono una dietro l’altra. Le più grandi (18-20 bambù affiancati) possono ospitare fino a 4 persone che trovano posto su due panchine di legno, basse e scomodissime, disposte più o meno al centro dell’imbarcazione. A noi è toccata ovviamente la zattera più scarsa e traballante di tutte, tanto per concludere in bellezza…

I due ragazzi danesi si sono accomodati al centro. Io avrei dovuto stare dietro di loro ma il rematore mi ha chiesto se desideravo dargli una mano a governare la zattera e mi ha consegnato una lunga asta di bambù. Sono rimasto sorpreso di tale gesto, evidentemente inteso a mettermi a mio agio, ma ho capito subito che, tutto sommato, quella era la scelta migliore. Restare seduto sui tronchi, praticamente a livello dell’acqua, e tornare a bagnarmi non mi andava per niente.

La lenta discesa a valle

Un bamboo rafting in Thailandia

La navigazione si è svolta senza particolari difficoltà. L’immagine sopra (che ho tratto dalla rete, non è mia) può dare l’idea di cosa sto parlando. In verità, il bamboo rafting è una pratica ormai consolidata che non comporta alcun tipo di pericolo: si limita a percorrere il fiume a favore di corrente cercando di tenersi alla larga dalle rapide e dai mulinelli che il fiume produce con i suoi dislivelli. E non potrebbe essere altrimenti, d’altronde, perché tali imbarcazioni non sarebbero in grado di resistere a movimenti d’acqua più consistenti.

Il mio compito, in sostanza, era quello di governare gli scodamenti della zattera utilizzando il palo di bambù come perno o appiglio, a secondo dei casi. Quando l’imbarcazione girava verso destra tendeva a “deparare” verso sinistra, e viceversa. Io allora intervenivo cercando un punto di appoggio in qualche masso alla mia sinistra (o destra) e facendo forza con le braccia evitavo alla poppa una possibile collisione. Nei momenti più calmi, invece, il mio compito era di assicurare una velocità costante conficcando l’asta sul fondale per spingere la barca in avanti. Eventualità che si rinnovava spesso, devo dire, perché la corrente del fiume, in certe aree, era francamente appena avvertibile.

Navigando placidamente e scodando, di tanto in tanto, siamo finalmente giunti a valle. Il fiume si allargava e diveniva, semmai fosse possibile, ancora più lento. Da qui fino all’attracco non ci sarebbe più stato bisogno di intervenire con la mio lungo palo, quindi mi sono rilassato. E’ stato allora che ho intravisto, da lontano, Paola che mi aspettava sulla riva del fiume. L’ho vista mettere mano alla videocamera e quindi, un po’ vanitosamente, mi sono messo in posa per l’occasione. Non era frequente, infatti, che apparissi nei miei film delle vacanze, e non volevo fare brutta figura.

Un equivoco divertente

Ho agitato le braccia per farmi notare e ho tirato in dentro la pancia. Essendo convinto che mi riprendesse, ho iniziato a fare mosse, boccacce, a urlare frasi, fare il buffone. Ma quando sono sceso dalla zattera per ricongiungermi a mia moglie, Paola è stata colta da un irrefrenabile momento di ilarità. Ho faticato alquanto a estirparle la ragione di tale reazione.

In sostanza ecco cosa era accaduto qualche minuto prima. Mia moglie, poco abituata a guardare attraverso il display della videocamera, quando ha visto arrivare un gruppo di zattere ha iniziato a cercare, utilizzando lo zoom, se tra esse ci fosse anche la mia. Mi ha individuato e ha iniziato a riprendermi, riducendo la portata dello zoom man mano che mi avvicinavo. E’ stato solo quando la zattera è arrivata ad una distanza tale da poter essere individuata perfettamente anche a occhio nudo che si è accorta che il tipo che la conduceva non ero io! Mi assomigliava moltissimo, era vestito come me, alto come me, portava gli occhiali come me… Ma non ero io.

Per tutto il periodo che lo aveva ripreso, peraltro, Paola lo aveva salutato più volte. E quel tipo le aveva risposto, e ha continuato a sbracciare fino al momento di scendere dalla zattera. Insomma, chiarito l’equivoco ci siamo avvicinati al terzo incomodo e abbiamo scambiato due parole con lui. Il ragazzo era americano e si è molto divertito quando ha appreso tutta la storia. Ci siamo salutati con complicità e simpatia, consapevoli entrambi di aver vissuto uno di quei rari momenti in cui le persone, anche se appartengono a mondi diversi, scoprono di possedere più affinità di quanto si pensi.

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