Mandalay è considerata la città con la maggior percentuale di monaci e monache di tutta la Birmania se non addirittura di tutta l’Asia. All’epoca del mio viaggio si calcolava che almeno un terzo della popolazione indossasse una tunica rossa (o rosa, per le donne). Una tale presenza di religiosi spiega e giustifica al tempo stesso l’enorme quantità di edifici religiosi che circondano la città. Monasteri, templi, pagode, stupa di ogni dimensione, tipo e colore, sorgono tra le strade, nelle piazze, sulle colline, nei campi, in mezzo alle foreste. Sembra quasi di esser giunti in un luogo che ha posto Dio al centro di ogni interesse esclusivo, anche terreno, trascurando qualsiasi altro aspetto laico della vita.
Tale condizione costringe il turista a operare una scelta su quali monumenti visitare e quali lasciar perdere. Ripeto: la quantità di cose da vedere è tale da costituire un vero problema, specie se il tempo a disposizione è limitato. A dar retta alle guide locali tutti gli edifici di Mandalay meritano una visita. Anche i più dimessi e distanti. Ogni tempio, in effetti, è caratterizzato da un un culto esclusivo, con riti e funzioni proprie. Ogni pagoda possiede un Budda specifico, spesso legato ai costumi, alle tradizioni, perfino alla natura del luogo. Decidere quindi di privilegiare qualche località a danno di altre costituisce un angoscioso dilemma che neppure la Lonely Planet può dissipare.
Nel nostro caso, per fortuna, eravamo egregiamente supportati dal nostro bravo Sonny. Lui aveva programmato tre giorni pieni a Mandalay, con un tour de force iniziale che comprendeva tutti i monumenti situati nell’area conosciuta come Mandalay hill. Di seguito descrivo brevemente gli edifici più interessanti che si trovano presso questa collina, indicando per ciascuno di essi la denominazione in inglese, quella più comune su cartelli turistici e guide cartacee.
Shwenandaw Monastery (Monastero del Palazzo d’oro)
Si tratta dell’unico esempio rimasto in piedi di edificio religioso interamente costruito in legno di teak. A dire il vero, in origine non era affatto un monastero. Ciò che si visita è infatti una parte di un palazzo reale di fine Ottocento che fu più volte distrutto da incendi e altrettante volte ricostruito. Divenne un edificio religioso quando la corte fu definitivamente trasferita nella città di Mandalay.
L’esterno è davvero notevole: una elaborata e raffinatissima serie di intarsi ricopre la prima veranda e gran parte delle pareti. Il colpo d’occhio è magnifico. Ovunque si intravedono figure di creature mitiche, danzatori, animali, fiori e piante. Non tutti i pannelli sono originali, ovviamente, ma ogni sostituzione è stata compiuta nel pieno rispetto di colori, forme e materiali, per cui diventa una sfida distinguere ciò che è originale da ciò che non lo è.
L’interno di questo edificio è ancora più intrigante. La grande sala a cui si accede dalla scala è disseminata di pilastri in teak, alcuni dei quali conservano le placche d’oro con le quali in origine erano interamente riverstiti. La presenza del metallo pregiato è visibile anche sulle figure delle porte interne e sugli intarsi sul soffitto. Così come è presente, in alcuni angoli della sala, qualche elemento ancora decorato a mosaici di vetro.
Kuthodaw Pagoda
Questo enorme complesso templare è uno dei luoghi più affascinanti di Mandalay e vale la pena dedicarci qualche attenzione supplementare. Il motivo è semplice: si tratta del luogo in cui è custodito il libro sacro del buddismo Theravada, nella forma di 730 pilastri di pietra in cui sono incisi i testi sacri su entrambe le facciate. Le lettere incise originariamente erano in rilievo d’oro, così come i bordi dei pilastri.
L’ingresso alla pagoda è maestoso e fin troppo raffinato: un corridoio interamente decorato con vetri colorati e marmo pregiato conduce all’onnipresente stupa dorato, di dimensioni considerevoli, che si erge al centro del complesso. Tutto intorno, seguendo un piano architettonico ben preciso, si diramano file e file di tempietti bianchi, sormontati da un piccolo stupa, ciascuno dei quali contiene una stele. Un muro basso in calce bianca circonda tutto il complesso.
Per apprezzare meglio la complessità della struttura basta dare un’occhiata ad un plastico – che sorge al centro di essa – che ne offre una esauriente visione di insieme. Ma il bello della visita è perdersi tra le zayat (case di mattoni) bianche, curiosare all’interno di esse per osservare i testi scritti in caratteri birmani, resi ancora più eleganti e misteriosi dalla inconsueta collocazione. Se la giornata è tersa e il cielo azzurro, ogni angolo di questo tempio offrirà occasioni uniche di scattare foto indimenticabili.
Hsinbyume Pagoda
Questa pagoda – a cui fa riferimento l’immagine principale di questo articolo – non è situata presso la Mandalay Hill ma dall’altra parte del fiume Irawaddy, a circa 10 chilometri a nord-ovest. E’ l’edificio religioso più “eccentrico” tra quelli descritti in questo post, pur essendo in realtà il più antico dei tre. La sua costruzione risale infatti all’inizio dell’Ottocento. L’architettura della pagoda si discosta significativamente dal modello di pagode birmano, come chiunque potrà appurare dalle immagini di questo articolo. Ha una struttura ellissoidale a livelli concentrici che nelle intenzioni doveva ricordare il monte Meru, ovvero il monte sacro della mitologia buddista. I sette livelli che la compongono rappresentano i sette monti che circondano il monte sacro.
A questa pagoda è legato il ricordo di un grosso equivoco. Io e mia moglie l’abbiamo visitata al ritorno dall’escursione a Mingun, durante la quale, come racconto in questo post, ci eravamo stancati enormemente e ne eravamo usciti con i piedi in fiamme (ogni area sacra buddista non va calpestata con le scarpe). Quando siamo arrivati, malgrado gli sforzi di Sonny di spiegarci dettagliatamente ogni aspetto religioso della struttura, ci siamo precipitati al suo interno per esplorare ogni anfratto tra i livelli e fare le foto più cretine che si possano immaginare.
Eravamo ambedue convinti peraltro che tutte quelle sagome arrotondate simulassero le onde del mare… L’equivoco è perdurato fino al nostro ritorno in patria. Solo qualche tempo dopo, leggendo qua e là, ci siamo resi conto dell’errore. Per questo motivo, se Sonny mi legge, gli chiedo scusa se quel giorno, come scolari disattenti e superficiali, non gli abbiamo prestato l’attenzione che meritava.