La visita di Trincomalee non sarebbe completa senza aver compiuto una capatina, anche breve, al suo monumento più rappresentativo: il Forte portoghese-olandese, ovvero Fort Frederick. Ma non aspettatevi una passeggiatina qualsiasi. L’imponente fortificazione, che si erge sul promontorio che si allunga sul mare e divide in due la città, richiede una camminata di circa 10 minuti e una successiva arrampicata su per i sentieri di una collina piuttosto angusta. Ma vale la pena perdere qualche minuto per arrivare a Swami Rock, uno dei punti più suggestivi, paesagisticamente parlando, di Trincomalee.
Il Forte in questione (come quello di Galle) fu eretto dai portoghesi nel 1624. Furono loro i primi a mettere piede in questa parte dell’isola per fondare una redditizia colonia commerciale. Trincomalee infatti è stato per millenni uno dei porti a grande pescaggio più importanti di tutto il sub continente indiano. Il forte fu costruito sulle rovine di un preesistente tempio indu, il Koneswaram (“tempio dei mille pilastri”), molto antico e altrettanto venerato, che i nuovi padroni distrussero senza alcun rimpianto utilizzando le sue pietre – si dice – per la nuova costruzione militare.
Un po’ di storia
Il forte, come ogni altro possedimento coloniale, seguì le vicende delle varie guerre che, tra il diciassettesimo e il diciottesimo secolo, sconvolsero il vecchio continente, passando di mano ripetutamente. Rimase infatti portoghese per appena 15 anni. Nel 1639 se ne appropriarono gli olandesi, che lo ampliarono e ne ricostruirono alcune sezioni, quelle che ancora oggi è possibile ammirare dall’esterno. Dopo gli olandesi toccò agli inglesi prenderne possesso, per poi cederlo ai francesi, da questi di nuovo agli olandesi e infine, nel 1796, ritornò definitivamente britannico. Che lo ribattezzarono “Fort Fredrick” in onore dell’allora duca di York.
La visita a Fort Fredrick è l’occasione di toccare con mano la pesante eredità coloniale in questa parte del mondo. E la prima, tracotante, testimonianza di ciò si presenta immediatamente, davanti alla porta principale del forte. Un rilievo mostra due leoni incontestabilmente britannici che cingono uno stemma regale sotto cui è inciso un motto in francese: “Dieu et mon droit” (Dio e mio diritto). Una testimonianza di quanto fosse naturale, direi quasi ovvio, reclamare un possesso coloniale, specie se ottenuto a spese di nativi pagani e sottosviluppati, e giustificarlo come un diritto divino. La scritta, peraltro, è il motto ufficiale del Re del Regno Unito, adottato per la prima volta da Enrico V (quindicesimo secolo) che fu sovrano contemporaneamente di Inghilterra e Francia.
Una festa religiosa buddista a Fort Fredrick
Superata la porta si entra ufficialmente all’interno del forte. Le vestigia del passato militare sono francamente poche, mentre da una svolta della strada principale in poi si entra nella zona militare odierna, ovviamente preclusa ai visitatori. Ma si tratta di un’area piuttosto piccola, circoscritta, appena riconoscibile per la presenza di qualche piantone armato di tutto punto ma poco interessato al via vai di turisti e pellegrini. La presenza più importante, infatti, è quella dei fedeli, in maggioranza buddista, che vengono quassù per visitare un paio di templi e una enorme statua dell’Illuminato che si erge nel punto più alto della penisola.
La nostra visita a Fort Fredrick è avvenuta proprio nel bel mezzo di una cerimonia buddista. Fin dall’avvicinamento al promontorio ci siamo accorti di essere circondati da una moltitudine di gente vestita di bianco che procedeva lentamente verso una zona decorata da bandierine e teli colorati. L’atmosfera era di festa, rilassata, divertita, con i nuclei familiari che avanzavano a gruppi recando borse e roba da mangiare. Arrivati alla prima spianata, subito dopo le mura, abbiamo subito notato una serie di gazebo, molto affollati, che distribuivano cibo e bevande. In altre aree, invece, erano state erette delle coperture di plastica sotto le quali si erano accomodate molte donne, in attesa di qualche evento che non siamo riusciti a individuare.
Su tutto aleggiava una musica vagamente pop, dal carattere orientale, con qualche influenza indiana. Che si interrompeva, a intervalli regolari, per essere sostituita da una voce un tantino sovra-amplificata, che recitava probabilmente una preghiera. Ma la gente dava l’impressione di non badare a quel frastuono. E noi pure, dopo pochi minuti di disorientamento, ci siamo adattati all’evento. E senza farcelo dire due volte, ci siamo messi in fila per la nostra sacrosanta razione di tè, incuranti del fatto che fosse contenuto in bidoni di plastica dall’aspetto poco incoraggiante.
L’attenzione di tutti era rivolta in un’unica direzione, il luogo in cui evidentemente era in programma che succedesse qualcosa, prima o poi. Alcuni monaci, infatti, hanno collocato con una delicatezza esagerata un tavolino su un tappeto. Poi hanno iniziato a spolverarlo e lucidarlo con cura maniacale. Subito dopo sono arrivati altri addetti portando una sedia dello stesso materiale e altrettanto riccamente intarsiata. Due pilastri di pietra bianca, sormontati da vasi di fiori acquatici, hanno completato l’allestimento. Da qui in avanti non ho rilevato alcuna attività significativa intorno a quel tavolo e quella sedia.
Swami Rock
Presumibilmente quel seggio era stato preparato per ospitare le sacre chiappe di qualche monaco di alto rango locale. Ma per tutto il tempo che sono stato a guardare – e posso assicurare che è stato un sacco di tempo – non ho visto nessuno neppure lontanamente provare a sfiorare sia il tavolo che la sedia. Di conseguenza, stanco e un po’ innervosito, mi sono dedicato a tutt’altro. Ovvero a raggiungere il secondo luogo degno di rilievo all’interno del Fort Fredrick: la Swami Rock.
La salita, come dicevo, è un po’ difficoltosa, specie se il tempo è inclemente. Da un certo punto in poi, infatti, il tragitto è terribilmente esposto ai capricci del tempo. Se piove o tira vento, o come è successo a noi, se avvengono tutte le due le cose, l’ascesa diventa francamente penosa. Ma il panorama di Trincomalee che si ammira da lassù è impagabile. Vale la pena quindi raggiungere il punto più alto, quello, peraltro, dove si può osservare uno strano albero piegato pericolosamente sul dirupo sottostante, i cui rami sono ricoperti di bandierine colorate. Si tratta del cosiddetto “Salto dell’innamorata”, luogo così chiamato – a dar retta alla Lonely Planet – in onore di una certa Francina van Rhede, una donna olandese che proprio qui decise di porre fine alla propria esistenza, gettandosi giù, a causa di una delusione d’amore.
La donna pare che sopravvivesse egregiamente alla caduta, dal momento che 8 anni dopo il suo matrimonio con un maggiorente locale fu regolarmente registrato negli archivi di stato…