Uno dei fenomeni sociologici che mi ha sempre incuriosito, nei miei viaggi in Oriente, è il rapporto controverso, spesso difficile, tra i locali e la comunità cinese. I cinesi, si sa, sono dappertutto. Ogni città ha la sua Chinatown, più o meno estesa, che spesso rappresenta il fulcro portante di qualsiasi attività commerciale. La comunità cinese, da questo punto di vista, è davvero il motore degli affari di parecchi paesi nel mondo.
Se questo fenomeno è evidente e tutto sommato scontato, in alcune parti del mondo non è così pacifico ed accettato. E’ il caso del Myanmar, perlomeno nel periodo del mio viaggio (giugno 2011), quando il paese iniziava ad aprirsi al mondo esterno. La Cina era allora l’unico paese che non rispettasse l’embargo internazionale imposto per il mancato rispetto dei diritti umani e politici da parte della giunta militare. I cinesi erano i soli che potessero vendere qualsiasi cosa ai birmani: trattori, camion, auto nuove, concimi, ma anche dighe, ponti, strade… Insomma, era l’inizio di quella cosidetta “invasione cinese” che ha poi caratterizzato gli anni seguenti e ha coinvolto quasi tutti i paesi del terzo mondo asiatico e africano.
Ma i cinesi non sembravano ben visti dai birmani, affatto. Nei loro confronti vigeva un sentimento di malessere, di malcelata diffidenza, di evidente disprezzo, il tutto forzatamente mitigato dalla consapevolezza – a mala pena riconosciuta – che la loro presenza era tutto sommato dolorosamente necessaria. Ma da dove nasceva tutto questo rancore?
Un po’ dalle parole – molto vaghe in verità – di Sonny, un po’ mettendo insieme le esperienze analoghe compiute in altre parti dell’Asia sud-orientale, a poco a poco mi sono fatto una idea mia. Non si tratta della verità assoluta, per carità, ma solo di una personalissima interpretazione di ciò che ho visto e ho registrato nella mia memoria.
Un popolo di immigrati (spesso clandestini)
In origine i cinesi erano dei semplici immigrati. E lo erano da ben prima che arrivasse Mao e il comunismo. Abbandonavano la madrepatria spinti più da motivazioni di mera sopravvivenza che per ragioni politiche o sociali. Si spargevano a macchia d’olio nei paesi limitrofi cercando quelle occasioni di vita decente che tutti gli emigranti, legittimamente a mio parere, cercano.
Ma quando arrivavano in un paese straniero erano quasi sempre mal visti. Per le elite locali e il semplice popolino, erano considerati come dei morti di fame, senz’arte né parte, sporchi, cenciosi, carichi di figli e senza un soldo. Una massa di gente appena sopportabile, a cui presto veniva inibita qualsiasi attività che non fosse la più infima e abbietta. Venivano per di più ghettizzati in zone malfamate, insalubri, abbandonate, relegati in zone in cui era perfino difficile sopravvivere. E’ il caso delle più famose Chinatowns dell’Asia, quelle di Bangkok e Kuala Lumpur, sorte in aree piuttosto malmesse della città.
A questo punto, però, ecco che l’istinto di sopravvivenza, unito ad un innegabile (e ancora vivo) fiuto per gli affari, è venuto in soccorso di questa gente relegata ai limiti della società. I cinesi hanno iniziato a costruire piccole comunità basate su ciò che, fino all’inizio del secolo scorso, era il vero agente propulsore di qualsiasi economia: il commercio. E commerciando di tutto, via via in proporzioni sempre maggiori, hanno costruito piccoli imperi domestici. Le generazioni si sono succedute alle generazioni e nel tempo i cinesi si sono integrati nelle comunità locali arrivando perfino a raggiungere posizioni di indiscusso privilegio etnico, come è avvenuto a Singapore.
I cinesi e i birmani, un caso particolare
In Myanmar è avvenuto più o meno lo stesso. I cinesi sono arrivati in maniera spiccia, senza quasi dare nell’occhio, andandosi quasi a nascondere nei luoghi più reconditi pur di restare in secondo piano. Per i birmani rappresentavano una minoranza a mala pena sopportata e ancor meno compresa. Ciò che imbarazzava era quell’innata quanto spudorata tendenza a inserirsi nelle maglie della società utilizzando la leva del commercio minuto, quello cioè più vitale alla sopravvivenza delle persone.
Ma finché restavano ai margini della società, senza effettive prospettive di crescita come comunità a sè stante, i cinesi erano tollerati e – per quanto possibile – protetti. Ma dovevano restare al loro posto, ovvero un gradino sotto a tutti gli altri. In Myanmar, almeno fino al 2011, non vi erano stati casi di cinesi che avevano percorso in salita la scala sociale, come nel resto del mondo. Nessun cinese di seconda, terza generazione era riuscito a scalfire quel muro di gomma che impedisce la mobilità sociale all’interno della società birmana.
Tutto è clamorosamente cambiato nel XXI secolo, quando per necessità e mancanza di alternative, i governanti birmani hanno dovuto ricorrere all’unico paese che garantiva un aiuto reale e costante: la Cina.
I cinesi (della Cina): i nuovi padroni del Myanmar
Ebbene sì, la stessa Cina dalla quale, qualche decina di anni prima, provenivano i tanto disprezzati immigrati semi-clandestini cinesi. Il rapporto si è improvvisamente rovesciato. Adesso i cinesi giungevano nel paese a bordo dei loro modernissimi Suv, vestiti all’ultima moda, con in mano cellulari di ultima generazione, pieni di soldi e risorse che nessuno si sognava di poter possedere un giorno. I cinesi (della Cina) sono diventati in pochissimi anni i nuovi indiscussi padroni del Myanmar. Che smacco per chi, da secoli, li aveva considerati solo dei parassiti morti di fame e con le pezze al sedere…
Ho intercettato questo sentimento di risentimento e malcelata avversione un pomeriggio in una stazione di rifornimento presso il lago Inle. Alcuni venditori ambulanti avevano predisposto dei palchetti, o dei lenzuoli, su cui avevano disposto la loro mercanzia: in prevalenza frutta fresca, piccoli oggetti di legno, qualche spiedino appena cotto. Noi ci siamo recati subito presso una ragazza, accovacciata vicino al suo povero campionario, costituito essenzialmente da barrette di legno di sandalo per realizzare cosmetici a base di thanaka.
A noi si sono aggiunti ben presto un gruppetto di rumorosi e ciarlieri signori cinesi, scesi da un paio di Suv parcheggiati poco distante. Erano in tutta evidenza dei semplici lavoratori, poco più che operai, ma si comportavano come se fossero i padroni del parcheggio. Mettevano le mani dappertutto e rovistavano tra la merce senza alcuna grazia, ridendo e scherzando in maniera molto imbarazzante. La ragazza li guardava con una espressione che mi pento ancora oggi di non aver avuto la prontezza di spirito di riprendere con la mia macchina fotografica. C’era disprezzo, odio, rancore e chissà quanti altri sentimenti negativi in quello sguardo accigliato. Ma non poteva fare nulla, proprio nulla per arginare tanta maleducazione. Era il simbolo vivente della resa del suo popolo.