Yangon non sarebbe la meta turistica che è senza la Shwedagon Pagoda, una dei complessi templari più belli di tutta l’Asia. E’ la pagoda più sacra del Myanmar, quindi rappresenta il primo passo obbligato verso la comprensione di questo religiosissimo paese.
Dal momento che il nostro programma di viaggio era piuttosto striminzito, prevedendo solo un giorno pieno a Yangon, Sonny ci ha organizzato subito una visita alla pagoda in compagnia di una sua collaboratrice, una guida che parlava italiano. Mentre attendevamo il momento di partire, sotto un violentissimo temporale, ci siamo presi la briga di controllare se una diceria che correva sul web era vera: ovvero che la connessione internet in Myanmar fosse problematica un po’ dappertutto.
Come temevo, la navigazione era estremamente lenta, procedeva a scatti, con frequenti perdite di banda e sconnessioni. Quasi una linea ISDN degli anni Novanta. Sul primo pc che ci hanno messo a disposizione non riuscivamo neppure ad aprire la pagina di Google; nel secondo, appena più moderno, qualcosa si muoveva, ma a rischio di farci perdere la pazienza. Che poi abbiamo regolarmente perduto, visto che in mezzora, pagata ben 3 dollari, siamo riusciti a mandare a malapena un mail alla sorella di mia moglie!…
Una passeggiata nel parco Kandawgyi
Terminato il temporale, ecco che finalmente possiamo mettere piede fuori dell’albergo. Ci è venuto a prendere Sonny, in compagnia di una sua cugina, Sonia (nome evidentemente occidentalizzato, per renderlo più memorizzabile ai turisti). Questa ragazza studiava italiano presso il nostro consolato, e devo dire che se la cavava bene.
Il percorso di avvicinamento è iniziato piuttosto da lontano, perché Sonny ha ritenuto più utile farci visitare il parco Kandawgyi, un lago artificiale molto tranquillo ove sorge, su una sponda, una enorme costruzione a forma di barca, la Barca Reale appunto. A dire il vero, non è proprio una barca, e non è neppure reale: oggi è adibita a ristorante ed è impossibile visitarla internamente, a meno di non decidere di andarci a mangiare. Ad ogni modo, è un bello scorcio da fotografare, specie se il cielo è terso e la luce del sole domina ogni elemento del panorama… cosa che, ovviamente, allora non fu possibile ottenere, dato che eravamo scampati ad un temporale e un altro si profilava all’orizzonte.
E in effetti, proprio nel momento di lasciare il parco e raggiungere la famosa pagoda, si è scatenato il secondo temporale della giornata. Preceduto, come da prassi da queste parti, da una vampata di caldo umido, opprimente, che ci appicicava i vestiti addosso e ci faceva colare il sudore a rivoli. Ci siamo rifugiati in macchina e sotto un vero e proprio nubifragio, con i tergicristalli che andavano alla massima velocità ma senza ottenere alcun effetto sulla visibilità, siamo arrivati davanti al complesso della Shwedagon pagoda. Devo dire, a onor di Theun e del suo modo di guidare, che miracolosamente non abbiamo investito nessuno né abbiamo preso in pieno qualche automobile o moticiclista…
La bellezza imponente (e presupponente) dello stupa dorato
Appena arrivati, il tempo è migliorato sensibilmente. Sembrava che tutti gli spiriti e i demoni del pantheon buddista volessero darci tregua per permetterci di ossequiare il loro tempio più celebre. Con una complicazione, tuttavia: in Myanmar i luoghi sacri sono accessibili solo togliendosi scarpe e – in alcuni luoghi più sacri di altri – anche le calzette. Che è, manco a farlo apposta, il caso della pagoda Shwedagon. Quindi ci siamo tolti scarpe e calze e a piedi nudi, su un pavimento di marmo viscido e freddo, ci siamo inoltrati all’interno del complesso.
La pagoda è in pratica un enorme stupa dorato di 98 metri posto al centro di un complesso piuttosto articolato di templi e tempietti. Malgrado la leggenda corrente affermi che abbia più di 2000 anni, la verità è che si tratta di un monumento costruito tra il VI e il IX secolo dopo Cristo. Ciò che non ne sminuisce, ovviamente, il fascino. E’ innegabile, tuttavia, che si tratti di un monumento davvero enorme, imponente, spettacolare, che lascia quasi senza fiato. Esso domina su tutte le altre costruzioni del tempio e, come si vede nella foto di copertina, anche sul resto della città. E’ così alto che è quasi impossibile farcelo entrare in una normale inquadratura da obiettivo grandangolare, se non retrocedendo all’indietro di parecchi metri.
Un’altra caratteristica che colpisce la nostra immaginazione di occidentali scettici, è l’uso esagerato dell’oro come elemento ornamentale. La pagoda è letteralmente rivestita da una patina d’oro; sono pochi millimetri, certo, ma distribuiti per una superficie enorme. Non serve una calcolatrice per capire quanto valore – oltre che religioso – ha questo monumento. L’oro è dappertutto: sui pinnacoli, sulle migliaia di statue di Budda, sui baldacchini, sui tetti, riveste immagini, rilievi, fontane e qualsiasi altro elemento ornamentale. Saremmo tentati di pensare che si tratti di uno spreco di risorse vitali, per un paese povero, risorse che potevano essere utilizzate altrimenti. A pensarci bene, tuttavia, è proprio questo utilizzo, per alcuni ritenuto folle, che rende le realizzazioni umane degne di ammirazione e rispetto. E immortali.