E’ una bizzarra coincidenza che i luoghi più affascinanti della Terra debbano essere raggiunti con grande dispendio di energie e sudate memorabili. In Vietnam, in particolare, affrontare impervie salite su scalinate sconnesse o sentieri scivolosi sembra essere la regola! Questa impressione, avvertita al momento di affrontare Ti Top island, l’isoletta in mezzo alla baia di Ha Long da cui è possibile ammirare l’itera baia (o quasi), è divenuta una certezza quando ho capito in che consisteva l’escursione a Hang Mùa. Una arrampicata di 500 scalini, gli ultimi dei quali in condizioni pessime, sotto un sole spietato e una umidità così densa da tagliarsi col coltello!…
Ma andiamo per ordine. L’escursione a Hang Mùa fa parte di un pacchetto molto reclamizzato e ancor più apprezzato dai turisti. Si compone di due tronconi: la salita alla collina di Hang Mùa, appunto, da dove si ammira il panorama sulla sottostante vallata alluvionale di Tam Coc; la successiva gita sul Tam Coc stesso, effettuata a bordo di barche molto particolari i cui conduttori remano con i piedi. Il tutto impiega l’intera giornata e lascia il tempo di tornare con calma a Hanoi, farsi la doccia e immergersi nuovamente nella vivace movida locale.
L’arrivo a Hang Mùa, a dire il vero, non lascia presagire ciò che ci aspetta. La località, infatti, si presenta come un originale e ben curato parco naturale, situato in una florida valle coltivata a riso. Il percorso si snoda tra giardini alla giapponese, corsi d’acqua, alberghi piuttosto lussuosi e alcune ricostruzioni di capanne e magazzini di qualche decennio fa.
Mano a mano che si procede la collina di Hang Mùa inizia a prendere forma davanti ai nostri occhi. Ciò che prima appariva distante, confuso e velato, adesso incomincia a rivelare alcuni dettagli alquanto inquetanti. Come si vede dalla foto sopra, il punto di arrivo è quella piccolissima e appena visibile pagoda che sta in cima ad uno dei due picchi che caratterizzano questa collina. A prima vista non sono individuabili scale o altri sentieri percorribili.
I primi 300 scalini
L’impatto iniziale, a dire il vero, è piuttosto scenografico. Un enorme dragone colorato affianca un’ampia scalinata che, a prima vista, appare senz’altro accessibile. Scalini regolari, dritti e ben visibili, con poca pendenza, conducono ad una prima svolta, appena individuabile in mezzo alla vegetazione. Niente di speciale, quindi. Una passeggiata in salita, insomma, se non fosse per un particolare. Le persone che scendono giù hanno una espressione che invito a osservare con attenzione. La maggior parte di essi, infatti, sembra aver affrontato una prova indicibile, a giudicare dal volto trafelato e dagli abiti zuppi di sudore. Alcuni scendono i gradini uno alla volta, piano piano, tanto tremano loro le gambe per lo sforzo sovrumano appena compiuto…
Le prime due rampe, che misurano ad occhio circa 30 metri ciascuna, non sono poi così terribili. Ad ogni svolta, infatti, si apre una piccola piattaforma che permette di prendere fiato a guardarsi attorno. Il panorama, in effetti, inizia a dispiegarsi mano a mano che si sale, rivelando luoghi e viste sempre più affascinanti.
A circa 300 scalini dalla meta, grossomodo, il percorso si divide in due. La scala principale, che continua a inerpicarsi lungo il fianco della collina ma è sempre più stretta e irregolare; un sentiero che conduce ad un’altra piccola scalinata che si inerpica sulla collina di fronte e raggiunge un altro tempietto molto suggestivo (vedi foto sopra). Tutto intorno il panorama è sempre più simile a quello della baia di Ha Long, ma con le pianure coltivate a risaia al posto del mare.
L’ultimo “strappo”
A circa 150 scalini dalla vetta l’ascesa si fa davvero faticosa. Gli scalini adesso sono irregolari, sberciati e rovinati in più punti, a volte nascosti dalla vegetazione o resi impraticabili dalla terra portata dal vento. Ogni passo è reso ancora più penoso dall’umidità, dal sole che picchia inclemente e dalla consapevolezza che, arrivati a quel punto, ritornare indietro non sarebbe la scelta più saggia. Ma c’è una ancora di salvezza. La penultima spianata ospita infatti un piccolo bar con tanto di tavolini e sgabelli di plastica. Un capace frigorifero custodisce al suo interno la merce più preziosa che esista: bevande ghiacciate.
E’ qui che molte persone si concedono una pausa rigenerante, prima di dare l’assalto agli ultimi 150 gradini o – alternativamente – iniziare la discesa (tanto il panorama, più o meno, lo si è visto quasi tutto…). Quando ci siamo arrivati noi, mia moglie ha subito preso possesso di una seggiola, ha tirato fuori una coca dal frigo e, una volta seduta, non si è voluta più alzare. Di conseguenza, sono andato avanti da solo, o meglio, in compagnia di Sergio d Danilo che, stoicamente, mi precedevano di qualche passo senza essersi neppure concessi un sorso d’acqua fresca. Evidentemente il calcolo delle proprie energie residue non lasciava alternative: fermarsi in quel momento equivaleva a bloccarsi definitivamente.
Ed eccoci dunque arrivati ai fatidici ultimi 50 gradini di Hang Mùa. Non si può neppure parlare di gradini, a dire il vero. Tuttavia qualsiasi disagio o sforzo supplementeare viene sopportato con pazienza, poichè la meta è ormai a portata di mano. Che finalmente adesso si rivela per quello che è: un tempietto dalla pianta quadrata, con un tetto a pagoda sorretto da colonne ormai sbiadite, costruito intorno ad una statua di Buddha in atto benedicente. La pagoda è ovviamente il punto di arrivo e per questo è presa d’assalto un po’ da tutti gli escursionisti, ma certo non è il pezzo forte della località. Ciò che lascia senza parole è il grandioso panorama che si può osservare da lassù, praticamente a 360 gradi tutto intorno.
Una vista impagabile
Che dire? Basta dare un’occhiata al selfie che mi sono scattato appena giunto in cima e giudicare l’aria di soddisfatto trionfo che aleggia sul mio viso. La vallata di Tam Coc da lassù si può ammirare quasi per intero. E subito si viene colti da una curiosa reminiscenza. Sembra di aver gia visto quel luogo, e non solo nei documentari di National Geographic. Vabbè, non starò a menar il can per l’aia, come si dice: io sapevo benissimo perché Tam Coc, recentemente, è divenuta così famosa. Sembra infatti che qui abbiamo ambientato alcune scene del film “Kong: Skull Island“, e precisamente quelle in cui lo scimmione ha il primo – conflittuale – incontro con gli elicotteri dei protagonisti.
Dopo la grande fatica per essere arrivati fin lassù, direi che sarebbe opportuno fermarsi un attimo – non solo per prendere fiato – e dare un’occhiata anche a quei minuscoli puntini animati che solcano le acque verdi di Tam Coc. Dalla cima sembrano insetti acquatici: invece sono imbarcazioni, e per essere più precisi, le barche tradizionali che da queste parti vengono noleggiate ai turisti per dar loro la possibilità di immergersi in uno degli scenari più fiabeschi della terra. Ma da questa distanza non si capisce come vengono condotte. Sarà una sopresa, nel pomeriggio, capire in che bizzarro modo vengono usati i remi.
In un posto così scenico, le occasioni di scattare una foto memorabile, meglio se è un selfie, abbondano. Ma attenzione: a parte il muretto che cinge la scalinata da un lato, intorno alla pagoda non ci sono altre protezioni di sorta. E’ tutto pericolosamente proteso sull’abisso sottostante! E molti non perdono occasione di mettere in pericolo la propria incolumità pur di scattare questo benedetto selfie della vita. Ho visto una coppia di turisti cinesi salire sul cocuzzolo più in alto, proprio sopra alla pagoda, e sporgersi in modo assolutamente folle verso il vuoto alla ricerca dell’inquadratura perfetta. Confesso che mi è gelato il sangue per loro!…
Dal tempietto parte una specie di appendice in pietra a forma di coda di dragone. Si tratta di una serie di eleganti archi che formano una cresta sulla parte più alta e scoscesa della collina. I più avventati si spingono fin lì per osservare anche il resto del panorama che dal tempio è precluso. Non raccomando di seguirne l’esempio, assolutamente. Il passaggio dal tempietto al primo arco è quanto di più sconnesso e pericoloso esista sulla terra. Meglio accontentarsi di ciò che si è appena raggiunto e iniziare a pensare di tornar giù. Perché la discesa non è meno faticosa della salita, garantito!