Morire di fame o morire di coronavirus? Ecco il dilemma! E’ questo lo scenario che devono affrontare milioni di operatori del settore turistico mondiale. Che si riassume in una scelta tra due soluzioni apparentemente inconciliabili. “Stare a casa”, difendendo la propria salute e quella dei propri cari, ma perdendo ogni giorno risorse e denaro, con il rischio di non recuperali mai più. O riaprire la propria attività, esporsi al virus, rischiare di ammalarsi pur di continuare a guadagnare qualcosa.
I pro e i contro sono presenti in tutte e due le situazioni, con un lieve vantaggio per la soluzione “conservativa”, quella a favore della tutela della salute, perché senza dubbio più condivisibile. Ma per molti non è la scelta più ragionevole. Restare senza più mezzi di sostentamento equivale a condannarsi a un futuro di incertezza, di ristrettezze e di probabili rischi sanitari ben peggiori di quelli causati dal coronavirus.
Lo scenario attualmente più probabile vede un crollo generalizzato del settore turistico in tutto il mondo. Acutizzato e reso probabilmente irrecuperabile dal fatto che coinvolge la stagione più redditizia, ovvero l’estate. Pensiamo solo agli imprenditori del turismo del nostro Sud Italia, della Riviera romagnola, la Grecia, la Spagna, la Turchia, solo per rimanere nel Mediterraneo. Esistono intere provincie, se non regioni, che alimentano i propri bilanci quasi solo con i proventi della stagione estiva. Pensiamo anche a luoghi più lontani e altrettanto votati al turismo, come le isole della Thailandia, Bali, il nord Africa, le spiagge dei Caraibi… Tutti fermi, congelati, bloccati da questa maledetta pandemia che ci sta infettando più di quanto non lo faccia il virus da solo.
Dalla parte degli operatori turistici
Cosa può succedere quindi? Azzardo qualche riflessione a ruota libera. Cominciando proprio da chi si occupa di attività turistiche. E focalizzo l’attenzione solo sui piccoli e piccolissimi esercenti, quelli che mandano avanti l’economia di quasi tutti i paesi in via di sviluppo. Immagino cosa stiano passando, in questo momento, per esempio i commercianti di Phuket. Ho visto su Facebook una foto scattata sul lungomare di Patong, la più celebre spiaggia dell’isola. Una desolazione sconvolgente. I locali che si affacciano lungo di esso sono quasi tutti chiusi. Gli unici che sembrano aperti non registrano neppure un cliente.
Come possono andare avanti, mi chiedo, questi imprenditori che hanno investito tutto sul turismo? Continueranno ad appoggiare la linea “dura”, conservativa, del governo thailandese che, come tutti gli altri nel mondo – almeno fino a oggi – ha deciso di bloccare ogni attività potenzialmente a rischio? Sceglieranno sempre la salute a discapito del portafoglio? O non inizieranno a fare pressioni sulle istituzioni per un allentamento, magari graduale, delle restrizioni in modo da recuperare, almeno in parte, i proventi della stagione?
Io protendo per quest’ultima soluzione. Mi pare inverosimile che milioni di piccoli e medi esercenti che vivono solo di turismo possano sopportare ancora a lungo il blocco della loro attività. E l’Estate, che si avvicina a grandi passi, non è certo il periodo migliore per aspettare con senso di responsabilità la fine dell’emergenza.
Stesso discorso, ma speculare, per i governi di questi paesi (compreso il nostro, ovviamente). Sono tutti grossomodo davanti al baratro finanziario: continuare a tenere l’economia al guinzaglio significa assistere alla progressiva erosione degli introiti fiscali. Niente reddito, niente tasse. Una situazione che nessna nazione, obiettivamente, può sopportare a lungo. Mi aspetto quindi qualche grossa novità, almeno entro Giugno, da questo punto di vista. Una specie di “santa alleanza” tra istituzioni ed economia volta a salvare il salvabile nel settore turistico.
Dalla parte dei turisti
C’è poi l’altro versante della faccenda: i turisti. Che sono una variabile fino a oggi trascurata, o comunque sapientemente tenuta a bada da raccomandazioni, buoni propositi, senso di responsabilità e chi più ne ha più ne metta. Ma è la catetoria che sta soffrendo le pene dell’inferno a causa delle restrizioni di movimento. Io non parlo solo per me, che ho visto saltare, come per incanto, il mio viaggio estivo in Thailandia senza quasi essermene reso conto… Parlo per i milioni di turisti scandinavi, inglesi, tedeschi, francesi che quest’anno non potranno raggiungere i loro beneamati luoghi di villeggiatura situati tra il Portogallo e la Turchia.
L’immagine qui sopra è emblematica di un malessere che a mio avviso tra qualche settimana diventerà una marea montante. Il tipo con il cartello sembra aver puntato tutto su una vacanza in Sicilia. E dall’espressione che ha non sembra volerci rinunciare a cuor leggero. Lui come altri milioni di turisti disseminati in tutto il mondo.
Il problema diventerà pressante quando queste nazioni inizieranno a riaprire alle attività sociali ed economiche. Piano piano, con la prudenza suggerita dalla gravità della pandemia, queste persone torneranno a lavorare, a spostarsi, a prendere bus e metropolitane, a mangiare fuori, a fare gite in campagna o al mare. In un paio di mesi esse saranno tornate alla normalità, o quasi. Le vacanze estive, a lungo represse per via del coronavirus, torneranno ad essere concepite come un aspetto minore, ma importante, della propria vita. Senza considerare che assumeranno un valore ben maggiore soprattutto dopo i mesi di segregazione forzata trascorsi in casa.
Anche da questo versante, in conclusione, mi aspetto pressioni notevoli sulle istituzioni. Se torniamo alla normalità, allora anche il mio tempo libero deve essere gestito come tutto il resto. In sostanza, se è normale che io torni a prendere una metropolitana per andare a lavorare, perché non lo deve essere anche viaggiare?