Bangkok è probabilmente la capitale in cui ho soggiornato di più, dopo Roma. Non è uno scherzo. Con il viaggio del 2019, ho raggiunto le 5 visite in un arco di tempo di appena 14 anni. Considerata quasi sempre un semplice scalo, la grande metropoli thailandese è divenuta, con il tempo, un luogo facilmente accessibile, accogliente, a suo modo perfino familiare. E questo malgrado la sua spaventosa tentacolarità, i suoi problemi di traffico, di inquinamento, di sporcizia, ecc..
Considero Bangkok, insomma, una specie di porto sicuro, un luogo in cui so come movermi, dove andare, quando mangiare, in che modo comportarmi. E’ come ritornare a casa, con tutte le conseguenze del caso. Ma ogni volta è una emozione nuova e diversa, perché ogni volta che torno a Bangkok la trovo cambiata.
Anche quest’anno ho provato questa sensazione. E’ bastato percorrere il lungo e complesso tragitto che ci avrebbe condotto dall’aeroporto all’albergo. In poco più di un’ora ho percepito i segnali che la città era leggermente diversa rispetto a quanto mi suggerivano i ricordi e le esperienze del passato, pur restando tutto – a prima vista – tale e quale. La metro blu era sempre la stessa, naturalmente, ma ciò che non riconoscevo più era il panorama, fuori, che ci veniva progressivamente incontro. Una foresta di grattacieli di recentissima costruzione, alcuni davvero molto arditi, quanto a struttura e concezione artistica. Uno skyline che nel 2013 (anno dell’ultimo ritorno a Bangkok) era praticamente assente.
Di contro, una volta entrati nel nucleo più tradizionale della città, e per la precisione arrivati al molo per prendere il bus navetta, mi sono accorto che nulla è cambiato. Il viottolo che conduce al fiume, da Banglampu, è come al solito stretto e intasato di negozietti di ogni genere; la rivendita biglietti è sempre relegata ad un misero e rozzo bancone posto a pochi metri dall’imbarco, persino i biglietti sono gli stessi. E’ come se il tempo si fosse fermato, cristallizzato; da queste parti, evidentemente, non serve andare al passo con il resto della città. Qui l’esistenza è scandita dalle solite, immutate, incombenza quotidiane, e il progresso aiuta poco ad andare avanti.
Il fiume Chao Phraya, con il suo frenetico via vai di barche, vaporetti, zatteroni, piccole e grandi navi, è un altro luogo che amo molto e in cui mi sento sempre a mio agio. E’ la via di comunicazione che preferisco, perché mi da modo di trasferirmi da un punto all’altro della città evitando il caos dei trasporti tradizionali. La navetta passeggeri, con i suoi lenti tempi di attracco, ripartenza, navigazione, regala momenti di tranquillità e meditazione altrove impensabili. E costringe ad osservare un panorama urbano finalmente ampio, privo di limiti architettonici quali grattacieli, piloni della metro, cavalcavia, centri commerciali…
Qui la frenesia e la velocità sono concetti praticamente sconosciuti. Il ritmo lo dà il fiume, le sue correnti, il continuo susseguirsi di attracchi e partenze. Non c’è modo di rendere più rapide queste operazioni: bisogna adattarsi ai tempi tecnici della navigazione e aspettare pazientemente la propria destinazione. A tal proposito, la novità di quest’anno è che tutti i moli sono contraddistinti da un numero progressivo. In questo modo è impossibile confondersi tra un attracco e l’altro – come è avvenuto qualche volta in passato; basta memorizzare il numero del molo di arrivo (o di partenza) e il gioco è fatto.
L’ultimo elemento che mi rende così familiare tornare a Bangkok, è il cibo da strada. Non c’è posto al mondo in cui non abbia mangiato per strada, ovviamente, ma a Bangkok lo faccio con uno spirito diverso, più rilassato e ben disposto. L’idea stessa che ovunque, in qualsiasi momento, possa avvicinarmi ad un chioschetto e ordinare una pietanza qualunque, senza timore di pagare eccessivamente o di venire avvelenato, è una sensazione impagabile. Significa che mi fido del mio istinto e della onestà della gente. Proprio come a casa mia. E mi dà modo di assaggiare sempre qualcosa di diverso, originale, sconosciuto che altrove, probabilmente, eviterei come la peste e relegherei nell’archivio dei rimpianti e delle occasioni perdute.