Non esiste forse al mondo un luogo che riassume in sè il meglio e il peggio di un paese come le grotte sacre di Pak Ou: la più celebrata e – probabilmente – sopravvalutata attrazione turistica del Laos. Una meta che solleva ancora oggi, tra i visitatori, reazioni contrastanti ma tutte, inevitabilmente, sempre più tendenti al negativo. Basta dare un’occhiata a Trip Advisor per rendersene conto. Ma non è delle esperienze degli altri che voglio parlare.
L’escursione alle grotte di Pak Ou è una delle gite organizzate più offerte dalle agenzie turistiche di Luang Prapang. Nel 2013 era possibile acquistarla direttamente al molo principale sul Mekong, contrattando direttamente con il proprietario di qualsiasi cosa galleggiasse sul fiume. L’idea era seducente, ma allora preferimmo adottare una strategia più prudente, affidandoci al nostro albergatore che, in pochi minuti, trovò il pacchetto che faceva per noi. La gita prevedeva infatti l’escursione di mezza giornata in lancia fluviale da 4 posti e comprendeva anche una tappa intermedia con visita ad un villaggio tradizionale.
Il giorno della partenza, tanto per cambiare, piove. Meno male che la lunga e stretta lancia a motore che ci ospita è provvista di tettoia, penso io… ma in breve devo ricredermi. Una volta in moto, la pioggia da verticale diventa quasi orizzontale e penetra facilmente all’interno, inzuppandoci tutti. O meglio, inzuppando sopratutto la coppia di giovani giapponesi che ci sta davanti, i più esposti alle intemperie. Il proprietario della lancia, al contrario, se ne sta a prua tranquillo e beato, incurante delle nostre difficoltà, e manovra abilmente la barca con un volante da camion!
La prima parte del viaggio, compiuto tra uno spruzzo e l’altro, dura circa mezzora. Il paesaggio è stupendo, non c’è che dire: la foresta incombe minacciosa sul fiume come un muro compatto di rami e foglie. Le poche aree libere sono delle graziosissime spiaggette di terra dove il fiume perde un po’ della sua corrente. Qui, ogni tanto, si intravede qualche indigeno intento ad abbeverare i bufali o qualche donna che lava i panni. Ma la presenza umana è ridotta a pochissime unità, tutto ciò che si vede intorno è solo alberi e ancora alberi… e il grande fiume Mekong che, grazie alle abbondati piogge dei giorni precedenti, ha assunto un minaccioso color ocra.
Prima tappa: il Whisky Village
Dopo un’ampia ansa del fiume, disseminata di piccole rapide, si approda presso una collina sulla cui sommità si intravedono alcune capanne. E’ la tappa intermedia prevista dal programma: la visita al villaggio tradizionale, un rito che a quanto pare viene offerto a tutti, visto che l’improvvisato molo di bambù è intasato di barche e turisti. Manco farlo apposta, appena messo piede a terra ecco che la pioggia si intensifica e ci costringe a coprirci con i soffocanti impermeabili che ci siamo portati appresso. Inoltre, la scalata alla collina, complice il terreno fangoso, è una vera e propria avventura. Si scivola spesso, i piedi perdono la presa e siamo costretti, più di una volta, a ricorrere ad appoggi di fortuna, come rami e pietre.
L’ameno aggregato di capanne malmesse che ci accoglie, tutto assomiglia meno che a un villaggio tradizionale laotiano. In realtà è un luogo sfacciatamente dedicato alla vendita di prodotti alimentari, in maggior parte liquori di ogni tipo, esposti alla belle e meglio all’interno di baracche. Tutto il resto è un ammasso di lamiere, legna ammucchiata, spazzatura di ogni tipo e galline, un esercito di galline che circola liberamente tra le gambe di autoctoni e turisti. Il primo step obbligato è l’assaggio del prodotto tipico locale, un whiskey offerto in bottigliette rivestite da una elaborata stuoia vegetale. L’unica cosa che vale è proprio la bottiglia, a dire il vero. Il liquore è francamente un prodotto anonimo, a metà strada tra una acquavite e una grappa vagamente aromatizzata. Niente a che vedere con un whisky, insomma. Peraltro, è l’unico omaggio previsto dal tour; da questo momento in poi occorre tirare fuori parecchi kip per acquistare qualsiasi cosa, anche il diritto di andare alla toilette…
Ma la vera specialità locale, quella almeno che attira la curiosità e l’attenzione di tutti i turisti, è il liquore fermentato insieme ad uno scorpione o a un serpente. La bottiglia che contiene tale delizia mi arrischio a dichiarare che è l’oggetto più fotografato di tutta la regione. Nessuno, però, prova ad assaggiare. Qualcuno acquista, a dire il vero, ma non penso che avrà mai il coraggio di aprire quella bottiglia, non per altro per timore di danneggiare un oggetto così inusuale.
Terminato il giro del villaggio, si torna alle proprie barche. La discesa, come è facile intuire, con la pioggia battente è ancora più pericolosa della salita. Mia moglie, un paio di volte, rischia di andare con il sedere per terra…
Seconda tappa: le grotte di Pak Ou
La navigazione procede quindi verso la destinazione ultima – e più attesa: le sacre grotte di Pak Ou. Il luogo è immediatamente riconoscibile perché è invaso da decine di barche simili alle nostre. Una specie di pontile galleggiante di plastica funge da molo. Si scende su questa piattaforma malferma e subito, davanti ai propri occhi, appare una articolata scalinata in pietra e calce che conduce più o meno a metà collina.
Improvvisamente inizia a piovere intensamente. Le barche si rifugiano sotto le rocce e abbassano dei teli trasparenti di plastica, su ogni lato, per proteggere conducenti e qualche turista dall’inclemenza del tempo. A me non resta che intraprendere la breve salita che mi condurrà alla grotta più interessante, quella la cui entrata è raffigurata nell’immagine di questo articolo. Raggiungere tale meta è anche un sollievo perché finalmente mi mette al riparo dalla pioggia battente. La scalinata è letteralmente presidiata da gruppi di accattoni e venditori di cibo, bevande e cianfrusaglie. Ad ogni svolta si è quasi assaliti da qualcuno che ti invita, a volte senza garbo, ad acquistare qualcosa. I mendicanti, in genere donne con bambini piccoli, sono capaci anche di afferrarti i vestiti e strattonarti pur di avere la tua attenzione!…
Driblo tutte queste persone e mi ritrovo finalmente all’imboccatura della caverna superiore (ce n’è infatti anche un’altra, in basso, che scoprirò solo al ritorno). Il luogo è disseminato di decine e decine di statue di Buddha, alcune di pietra, altre di metallo dorato. Sono tutte offerte degli abitanti del luogo, e non solo: pare che ci vengano da tutto il Laos per depositare la propria effige in mezzo alle altre. E’ una specie di pellegrinaggio votivo a cui si affidano speranze, aspirazioni, richieste di favori e tutto il repertorio di qualsiasi pratica religiosa.
Ciò che colpisce è la varietà e quantità di statuette disposte in ogni dove, ovunque ci sia un piano, anche in modo confuso e disordinato. Ce ne sono di ottima fattura e alcune decisamente dozzinali. Le più antiche, ormai rese opache dalla polvere e dal tempo, sono collocate in fondo e si intravedono appena. Le più recenti, ovviamente, sono a portata di mano e spesso bisogna stare attenti per non urtarle.
Lo schema della prima cavità si ripete per tutte le altre successive, anch’esse raggiungibili da scalinate sempre più strette e ripide. Procedendo verso l’interno la luce inizia a mancare e diventa estremamente difficoltoso procedere oltre. Mi accorgo che ho fatto male a non noleggiare una torcia dai venditori che stazionavano all’entrata. Pensavo di non averne bisogno e invece, in pochi minuti, mi trovo avvolto nell’oscurità. Un bambino del luogo mi viene in soccorso: mi prende per mano e mi conduce a visitare le cavità più nascoste della caverna. Laggiù, riuscirò a scattare le mie foto grazie al flash, puntanto l’obiettivo nel buio, fidandomi ciecamente delle indicazioni del mio piccolo accompagnatore.
L’operazione si ripete nella grotta inferiore, meno articolata ma decisamente più buia. Il bambino continua ad aiutarmi a trovare i soggetti delle mie foto, come quella qui sopra, assolutamente invisibile se non parzialmente alla luce delle torce. Gliene sono molto grato, naturalmente, ma non so come compensarlo. All’uscita, con la luce, mi accorgo che è piuttosto male in arnese, sia come stato fisico che come abbigliamento. Penso che, più che denaro, abbia bisogno di cibo e quindi acquisto per lui dei pacchetti di dolci e patatine. Il tipo sembra apprezzare ma non si risolve ad abbandonarmi. E’ evidente che vuole qualcos’altro. Mi ci vuole un attimo per capire cosa: all’uscita dalla grotta lo raggiunge una signora secca e raggrinzita, troppo vecchia per essere la madre, che mi fa un gesto inequivocabile che implica la richiesta di soldi. E io pago, naturalmente, non mi sembra neppure il caso di contestare alcunché…
Terza tappa: ritorno alla base
Il ritorno a Luang Prapang è il momento forse più triste e sconfortante dell’intera escursione. La pioggia si è trasformata in una specie di tromba d’acqua. Siamo costretti a calare i teloni laterali di plastica trasparente per non rischiare di annegare, ma in tal modo non vediamo più nulla e la temperatura, all’interno della lancia, inizia a divenire soffocante. Inoltre, gli scossoni e i sussulti della traversata si sono inesplicabilmente moltiplicati rispetto all’andata. E’ come se il fiume, che diventa sempre più color fango, intendesse far capire a chi lo naviga chi comanda veramente… Dopo un’ora abbondante di sobbalzi e spruzzi, ecco finalmente il molo di Luang Prapang. E, manco farlo apposta, finisce di piovere…
Insomma, che cosa dire di questa avventura? Vale o non vale la pena acquistare una escursione alle grotte di Pak? Per quanto mi riguarda, non è stata la gita più eccitante della mia vita, mettiamola così. Se si eccettua la traversata del Mekong che, malgrado il mal tempo, ha mantenuto un certo fascino, il resto è francamente troppo poco per giustificare costi e perdita di tempo. Se ne può fare a meno, ecco.