Che il Myanmar sia una terra di monaci è un dato di fatto che ho ho avuto modo di appurare personalmente. Ogni tre persone, una è un religioso. Mandalay, in particolare, sembra sia la città con la più alta concetrazione di monaci e monache – a parte forse Lhasa, in Tibet – di tutto il mondo!
Il buddismo praticato dai monaci birmani appartiene alla corrente Theravada. A differenza dei loro colleghi thailandesi o laotiani, che indossano vivaci tuniche arancioni, i monaci del Myanmar vestono una tonaca di un cupo colore rosso che li rende più austeri, quasi minacciosi. Le monache, anch’esse molto presenti nella vita birmana, indossano una tunica che a volte è rosa pallido, altre perfino gialla. Non ho mai capito dove sta la differenza tra le due fogge – sempre che esista, naturalmente.
I monasteri in Myanmar sono moltissimi, si dice addirittura 50 mila. Sono a totale carico della comunità laica, dato che un monaco non deve possedere nulla, a parte il proprio vestiario e una ciotola per l’elemosina. Tuttavia non è raro imbattersi in un giovane monaco, rasato a zero e ben curato, che parla in inglese e utilizza lo smartphone o il pc. I tempi cambiano, si potrebbe dire, e in Myanmar, dove il passato domina su tutto, cambiano ancora più velocemente che altrove. Sarà, ma la visita al monastero Mahagandayon mi ha scatenato un mucchio di riflessioni, alcune decisamente negative, altre più indulgenti, su questo mondo parallelo, distaccato ma allo stesso tempo parassita del mondo reale.
Mahagandayon, una città nella città
La meta della nostra visita è forse il luogo più famoso del Myanmar, tanto da essere divenuto, in tempi recenti, una attrazione turistica a tutti gli effetti. L’ingresso è libero e si può circolare a proprio piacimento per tutto il complesso, ambienti privati compresi, basta non arrecare troppo fastidio ai monaci intenti nelle loro faccende quotidiane. Una guida locale – da cui è bene farsi accompagnare – sarà sempre pronta a bloccarti se stai per compiere qualche gesto inopportuno o sconveniente. Ripeto, si tratta di un’occasione, ovunque irripetibile, di farsi un’idea di come funziona e quanto è importante una istituzione buddista come questa.
Mahagandayon è un enorme complesso di edifici adibito, per così dire, a scuola elementare, superiore e di specializzazione per monaci. Si tratta in sostanza di una specie di villaggio, con abitazioni a camerata, cucine, bagni all’aperto, ambienti in comune per le cerimonie e i pasti. Non mancano le strutture tipiche di una città, come strade, incroci, marciapiedi.
La “carriera” del monaco
Lo frequentano coloro i quali, per scelta propria o più probabilmente di altri, decide di intraprendere la lunga strada del monaco buddista. Si comincia infatti a 6 anni; i ragazzini di questa età sono vestiti di bianco e vengono distaccati in un quartiere a parte. Il loro corso di studi è uno dei più difficili in assoluto, perché ha il solo scopo di abituare il novizio a distaccarsi dal mondo degli altri bambini e a imparare la rigida disciplina buddista. Il gioco è relegato a pochi momenti ben circoscritti della giornata; il resto è dedicato allo studio e alle faccende domestiche, anche le più umili.
La ragione di tale impostazione è semplice e cinica allo stesso tempo: la disciplina e lo studio intensivo di versetti a memoria fortifica la volontà dei bambini e rappresenta una specie di esame di idoneità al difficile mestiere del monaco. Se non sei portato, meglio abbandonare subito, quando sei ancora adolescente, invece che trascinarsi il dubbio fino all’età adulta. Sembra che ogni birmano è costretto a fare questa sorta di “servizio militare” obbligatorio almeno una volta tra i 6 e i 20 anni. E’ un fattore di orgoglio per la famiglia che ne ricava, evidentemente, qualche vantaggio futuro, forse nell’aldilà…
Insomma, al monastero Mahagandayon si entra come novizi e se si è ingrado di continuare, ecco che si apre una strada verso una professione da monaco. Con tutti i suoi pro e contro. Se infatti da un lato un monaco buddista è tenuto a rispettare un regime di assoluta povertà, a vivere di elemosina e poco più, dall’altro la scuola persegue un altro scopo, ben più importante. Prepara i più meritevoli e tenaci ad una vera e propria carriera in seno all’istituzione. Questa scuola, infatti, forma i futuri dirigenti di monastero, quindi i pezzi grossi della nomenclatura religiosa birmana. Avere la possibilità di diventare “qualcuno” o almeno di studiare: ecco quindi giustificato il desiderio di tante famiglie birmane di vedere almeno un figlio monaco.
Le fasi della visita
La visita all’interno del monastero prevede una rapida occhiata alle cucine, ai forni, alle dispense e alle camerate, dove i monaci dormono e studiano. E’ frequente vedere in questi ambienti ragazzi e uomini maturi intenti a leggere un libro e a borbottare frasi a bassa voce, in continuazione, quasi senza prendere fiato. Ciò che stanno studiando, o meglio imparando a memoria, sono i precetti del buddismo Theravada, 227 paragrafi scritti in una antica lingua indo-europea, la lingua Pali. Per il resto la loro vita è decisamente ridotta ai minimi termini: sveglia all’alba, toilette con acqua fredda, elemosina, colazioni frugali e molto studio.
Si può assistere anche ad un momento altrimenti intimo come la doccia. I giovani monaci non si vergognano granchè, e d’altronde non si lavano il corpo nudo come facciamo noi, ma abbassano una parte della tunica per scoprire il busto, unica parte del corpo che è consentito scoprire. Direi che si lasciano guardare volentieri dai turisti, affatto imbarazzati dalla situazione, forse addirittura inorgogliti da tanta attenzione.
Delle altre due fasi della visita – la processione per le vie della città e il pasto collettivo – ne parlo in altri due articoli.