Fra Cina e Giappone in passato non è mai corso proprio buon sangue. Fiere contrapposizioni, aperti conflitti, invasioni, rivoluzioni, guerra fredda… I due paesi sembrano aver sperimentato tutti i gradi dell’inimicizia possibili nel corso degli ultimi 3 secoli. Oggi invece è diverso: smaltiti gli ultimi risentimenti, rimesse nel cassetto ripicche e rivendicazioni varie, i rapporti sono diventati più amichevoli e collaborativi – specie in campo economico.
Solo un settore rimane ancora a richio di relazioni pacifiche: la cucina. Parecchi piatti delle due gastronomie, infatti, sono così simili tra di loro che difficilmente si capirebbe la differenza. Queste somiglianze hanno dato vita a una querelle che dura da secoli: ciascun paese rivendica a turno la paternità di una qualche pietanza particolare e l’altro contesta tale posizione. Una volta tocca alla Cina un’altra al Giappone.
Tale fenomeno interessa sopratutto alcune specialità, peraltro molto diffuse sia in Cina che Giappone. Il caso più noto è quello dei ramen. La versione più celebre è quella giapponese, è vero, ma anche in Cina si mangia una pietanza molto simile. Chi lo ha inventato? E quando? Sembra ormai assodato che il ramen giapponese non sia altro che una versione riveduta e (poco) corretta del lamien cinese: una zuppa di noodles, carne, vegetali che i cinesi mangiano a qualsiasi ora del giorno, persino a colazione. Il ramen nipponico, tuttavia, si può considerare quasi un piatto nazionale, cucinato in molti modi diversi e tutti molto complicati. E’ diventata perfino una istituzione, con tanto di maestri e di tecniche segrete, come testimonia il film “The Ramen Girl“. Esiste anche un museo del Ramen, a Yokohama, dove è possibile assaggiare tutte le varietà più diffuse del paese.
L’altro esempio, meno noto per noi occidentali, è il caso dello shabu shabu e lo huo guo (chiamato anche hot pot). Il primo è la versione giapponese del secondo. Qui però le differenze sono a mio parere molto più marcate. Intanto descriviamo brevemente i due piatti e cosa hanno in comune. Si tratta di una pietanza che ci si cucina da soli. Si entra nel locale, ci si siede al tavolo che presenta, al centro, un fornello acceso. Sopra viene collocata una pentola piena di un brodo bollente. A questo punto, a secondo di dove ci troviamo, possono avverarsi le seguenti situazioni:
- un cameriere inizia a portare piatti di verdura, carne rossa o carne bianca, funghi di ogni tipo, pesce, crostacei, alimenti dall’aspetto strano e sconosciuti ai più. Ogni commensale viene fornito di un piatto personale, in genere più ampio degli altri, e circondato da una serie di due, tre, anche quattro piattini contenenti salse diverse. Questo è ciò che accade generalmente in Giappone. Il più delle volte non hai modo di scegliere: ti portano ogni pietanza senza chiederti nulla, confidando sul fatto che, se sei entrato nel locale, dovresti essere perfettamente al corrente di cosa mangerai e come.
- Un cameriere giunge con un menu: bisogna scegliere quali pietanze mangiare e il tipo di piccantezza del brodo. E’ possibile utilizzare anche una tablet e ordinare tutto ciò che si desidera online. Il piatto personale a volte è riempito con del riso in bianco. Quanto al brodo, in Cina – ma anche in Giappone, in alcuni locali – è possibile avere una pentola la cui forma ricorda il simbolo yin/yang: da una parte bolle il brodo piccante, in genere rosso e carico all’inverosimile di peperoncino (o pepe di Sichuan); dall’altra bolle il brodo al naturale, per i palati meno irresponsabili, diciamo così.
La procedura del pasto avviene nei due paesi pressappoco allo stesso modo. Ciascun commensale, afferrate le bacchette, immerge un alimento nel brodo, aspetta qualche secondo, poi lo estrae e lo deposita rapidamente su uno dei piattini con le salse. Quando la cottura richiede più tempo, non è raro che sia lo stesso cameriere a immergere grandi quantità di carne e verdure nel brodo, lasciando poi a noi il compito di scegliere cosa “pescare” e quanto mangiarne.
Differenze tra Shabu Shabu e Huo Guo
Devo dire che non ci sono differenze sostanziali tra i due piatti. Ho notato forse una minore varietà di condimenti per la versione giapponese rispetto a quella cinese. Questi ultimi per esempio sono capaci di presentare portate con parecchi tipi di carne dalle forme sconosciute, a volte anche sospette, comprese frattaglie, insaccati e interioria di animali. I giapponesi, invece, più raffinati, preferiscono mangiare carne rossa, spesso di manzo, possibilmente molto grassa.
Altra differenza, ma si tratta di una mia sensazione, è l’uso di aggiungere i noodles o altri tipi di pasta. In Giappone non mi è mai capitato di trovare anche della pasta fresca tra i condimenti del mio shabu shabu. In Cina, invece, un autentico huo guo senza i vermicelli non è neppure concepito; se poi questi noodles siano di frumento o di riso non importa.
In alcuni locali si può perfino assistere ad uno spettacolino durante il quale un cameriere trasforma un insignificante panetto di farina in spaghetti pronti per la cottura. Con gesti energici e misurati al tempo stesso, lavora il panetto in modo tale da allungarlo sempre di più. A volte lo fa roteare energicamente sulla sua testa; altre volte lo getta in avanti, verso i commensali, fidando sull’elasticità del prodotto, e lo recupera immediatamente quando ha raggiunto la lunghezza richiesta. Ripete due, tre, quattro volte l’operazione, tra i gridolini di soddisfazione degli avventori, riducendo le strisce di farina ogni volta della metà, fino a raggiungere la laghezza giusta per la cottura.